Dalla follia alla salvezza
Gli intrecci della vita sono a volte sorprendenti. Ricordo con sprazzi di suggestiva lucidità un periodo di tanti anni fa; ero all’ultimo anno delle magistrali, nei pressi di Velletri. Avevamo iniziato con il nostro gruppo di post-noviziato una esperienza particolare; ogni sabato del mese ci recavamo ad Ariccia, presso una immensa casa dei Fatebenefratelli. A quei tempi i manicomi esistevano ancora, eccome. In quel grande ospedale una zona era interamente riservata ai malati di mente. Si entrava e ci si ritrovava catapultati in un’altra dimensione.
Vedevi gente tranquilla con la valigia in m ano, attendere serenamente, accanto al lampione, il passaggio del bus. Ci dicevano che faceva così, ogni giorno, si preparava al mattino e poi rientrava la sera. Da anni. Gente coi vestiti sbrindellati, o anche senza, girare come attori che provano il copione, declamando versi o investendo di improperi le parolacce. E c’era anche il semplice scroccone che ci aspettava per chiederci una sigaretta, un momento di ascolto. Poi c’erano i reparti e lì capivi che alcuni malati di mente forse erano tutt’altro. Ce n’era qualcuno bloccato a letto, senza il dono della parola. Ma aveva il sorriso e sembrava già un parlare. Naturalmente noi eravamo a contatto con quelli “semplici”, i buoni, come direbbe Mencarelli.
Con queste premesse, leggere questa storia mi ha fatto andare rapidamente con la mente e il cuore a quel periodo, vissuto praticamente nelle stesse zone raccontate dall’autore, con pochi anni di differenza. Questo collegamento aiuta certamente a rileggere in filigrana non solo la sua storia, ma anche la mia esperienza… Per non parlare della suggestione che i Castelli Romani esercitano anche solo per i profumi e i luoghi, ormai sedimentati nella memoria.
E tanto per cominciare, è strano leggere un libro in cui il protagonista abbia il nome dell’autore, come se una sorta di identificazione si potesse cogliere. La storia è molto semplice e ben condotta. Un giovane ventenne, con piccoli precedenti, uso abituale di sostanze, una psiche fragile, dà di matto e viene colto da un raptus violento, in casa sua. Il padre rischia grosso, investito da questa aggressività. Viene applicato d’ufficio un TSO, un trattamento ospedaliero obbligatorio. Insomma, lo mandano in ospedale per una settimana, sperando che nel frattempo la buriana si calmi.
Siamo nel 1996, l’anno dei mondiali di Arrigo Sacchi, un evento che scorre e affiora ogni tanto nel racconto. Lo spaccato della società italiana della fine del secolo scorso è ben nitido, coi suoi rituali, le sue abitudini e i suoi alti e bassi. Nel libro si racconta in modo meticoloso e ordinato questa settimana, attraverso la voce narrante di Daniele. Il piccolo mondo dei pazienti del suo reparto viene scandagliato in profondità e con tenerezza inusuale. Ogni malato che Daniele incontro diventa prima un nome e poi, poco a poco, una persona; in alcuni casi si trasforma persino in amico. E’ un microcosmo vissuto dall’interno con sofferta compassione, perché l’autore condivide la tragica scintilla di questa follia che a volte emerge, come una sorgente carsica, e si impadronisce con violenza della persona, come nel concitato finale, dove al posto di una calma apparente per la conclusione del periodo di cura, tutto sommato normale, viene travolta dallo sfogo violento di una persona che si vede negato un semplice gesto di umanità.
Tanti i temi che affiorano: dalla condizione difficile dei malati di mente, al personale che lo accudisce, dalla considerazione della malattia mentale (basta la chimica, no, serve la relazione…anche i dottori incontrati nella settimana sono divisi su queste sponde metodologiche).
Nel frattempo il protagonista ha tempo per rivedere i suoi rapporti familiari, la sua storia, i suoi problemi, il rapporto con la madre e il padre. Riflette persino sulle conseguenze di bravate adolescenziali che si ritengono spesso senza nessuna importanza, e invece si troverà a diretto contatto con una persona che porterà per sempre le ferite di queste azioni, dimenticate dagli stessi attori.
Il campionario di pazienti che Daniele racconta sono persone vive e vivide, ciascuna con il suo dramma e le sue paure. Nel riparto si scopre così una sorta di cameratismo insperato, una rivincita dell’umanità nei confronti della malattia e dell’assurdità di certi trattamenti. Una ricerca di senso e di salvezza che nobilita le persone, nonostante l’ambiente e il destino che li ha relegati ai margini della vita e della società.
Molto particolare il linguaggio: un italiano scorrevole, accessibile e forbito per tutte le parti narrative e poi un romanaccio sghembo e spesso slabbrato per i tanti dialoghi del testo. Sarà certamente un libro difficile da tradurre! Fa capolino anche un’altra delle passioni dell’autore: la poesia, che sembra una delle caratteristiche del protagonista; per alcuni giorni il racconto ruota intorno alla scrittura di una poesia, che poi verrà letta prima ai compagni di camera e non verrà invece declamata al dottore che l’aveva espressamente chiesta, ma reo di aver confuso platealmente il suo paziente. Spesso i malati sono ridotti a numero, compilation di farmaci da assumere, a fascicoli da compilare e l’errore di lettura sembra una semplice svista; una tragedia, invece, per il soggetto.
Libro interessante, che ricorda la condizione dei reparti psichiatrici fino a non molti decenni fa e obbliga a mantenere viva l’attenzione per il disagio mentale di tante persone, i “fragili” della nostra società.