Passare alcuni giorni a casa, a Sanremo, bello arroccato sulla mia Sanlorenzo, a metà strada tra montagna e mare, non mi capita spesso. Ma questa pausa autunnale, era ben motivata per motivi familiari.
Sono stati giorni molto morbidi e apparentemente tranquilli, senza troppe distrazioni o incombenze varie. Un’occasione per osservare anche con calma il tempo che cambia, i giorni che lasciano sul paesaggio una patina stagionale ben evidente.
Peccato per le piante di cachi, che non erano ancora al momento più suggestivo dell’autunno, ma di “foliage” interessante ce n’era abbastanza, tutto intorno. Ci ha persino pensato l’amico fr. Zeno a mandarmi due foto del campo di Entracque, con le foglie ormai pronte al distacco, giusto l’occasione per aggiungere due righe (con foto, ovviamente) anche a questo proposito.
Ho ritrovato le piante avviate in agosto, anche se per forza di cose un po’ abbandonate; pulito un po’ il nostro orto, rimesso in piedi qualche rimasuglio di pomodori, mondato le insalate. Viene sempre la tentazione di seminare e coltivare solo erba, perché quella spunta ovunque…
E ho cercato anche di sistemare qualche altra pianta aromatica nei vari punti strategici; ne metterei quasi in ogni angolo, ma non di solo naso vive il panorama! E per quanto riguarda il naso, quello si è allenato abbastanza in cucina, con l’amalgama di sapori e gusti che stuzzicano sia il palato che la memoria.
Nell’ultimo giorno, dopo la pioggia di lunedì 1 novembre (a onor del vero qui da noi sono scesi poco più di 35 mm. di acqua, in modo davvero discreto e tranquillo, altro che le inondazioni siciliane di questi giorni, che ho scampato totalmente) ho provato a fare due passi verso la strada militare, il confine evidente tra l’abitato e il selvaggio. Una strada che si dipana tra serre e spianate ancora coltivate, tra gli ortaggi e le piante da ornamento; rapidamente la macchia mediterranea, o qualcosa del genere, prende il sopravvento e si raggiunge facilmente la zona dove l’unico intervento umano è quello della vigliacca inciviltà di chi scarica immondizie e rumenta varia nelle scarpate. Purtroppo anche qui le ferite sono evidenti e i vari cadaveri di frigoriferi e tv nelle ripe sono ormai un elemento storico, difficilmente sanabile.
Ma attraversata la strada e introdottosi un poco nel bosco, per fortuna tutto cambia e la natura riprende il sopravvento. Bastano pochi minuti per riconciliarsi con l’ambiente, sentirlo come doveroso e necessario, quasi onorarlo. E gli occhi prendono il sopravvento sulle parole.
Il pio desiderio di riuscire a mettere giù qualche riga con una tempistica più decente, anche solo come “allenamento” non credo sia una mia nota distintiva. A volte passano davvero molti giorni e molte cose prima di sedimentare sul web. Non che sia necessario (un blog quasi mai lo è), ma diventa un utile appuntamento con la realtà e quel pizzico di riflessione che aiuta a viverla meglio.
In questo inizio di autunno, qui a Siracusa, il tempo si è ormai deciso a rimettersi al passo col calendario. Io continuo a dire che lo scorso anno si riusciva ancora a fare qualche passaggio in acqua, con il mare così vicino, ma ormai sono diverse settimane che il tempo si è ormai piazzato sul medio-brutto. Pioggia, e tanta; nella sola giornata di venerdì scorso (14 ottobre) sono piovuti più di 40 mm, praticamente il 10% di un intero anno. Se fosse arrivata a luglio, nel periodo critico degli incendi, sarebbe stato davvero meglio… Ma l’acqua serve, anche quando crea qualche disagio (e qui a Siracusa è successo ben poca cosa, un simpaticone ha preso il canotto e si è messo a pagaiare per la strada in versione torrente, per manifestare i vari disservizi, ma è più una nota di colore che un vero problema). Anche la temperatura si è ormai allontanata dalle astronomiche quote estive. Finalmente nel nostro appartamento si inizia a sentire un po’ di fresco (e qualcuno ha già raddoppiato le coperte!).
E sarà il mare, sarà l’acqua, saranno le passioni di un tempo che rifanno capolino, ho da poco allestito anche un piccolo acquario, che fa la sua (discreta) figura all’ingresso del Ciao. Una piccola vasca, 60 litri, di seconda mano (l’acqua invece è originale, anzi, va cambiata spesso!) In realtà volevo metterci dentro dei pirahna e poi incutere un qualche terrore ancestrale nei bambini che finiscono i compiti troppo in fretta: “Adesso diamo da mangiare ai pesciolini…”; ma per fortuna lo scopo è un altro e spesso si rivela un sistema interessante per fargli occupare un po’ di tempo: “Trova il 4 pesce” (sigh, ne sono rimasti solo i 3 della foto, quindi sarà dura!), oppure “Controlla se dalla conchiglia esce qualcosa…”. Così adesso, la sera, quando il timer spegne la luce alle 19:30, diventa più facile ricordarsi che bisogna trovare tempo anche per le altre cose. Non ricordo quale psicologo consigliasse agli ansiosi, alle persone frettolose e agli irrequieti, di prendersi qualche minuto, mettersi davanti ad un acquario e lasciare andare gli occhi dietro ai volteggi dei pesci. Puro relax.
Domenica scorsa ho partecipato anch’io all’assemblea dei fratelli maristi d’Italia, presso la nostra casa generalizia di Roma; ne ho già scritto qualcosa qui, non serve ripetersi. Bella esperienza, davvero.
E per concludere, la notte tra il venerdì e il sabato, per un servizio con la CRI, ho avuto l’opportunità di fare un servizio insolito, dormire presso l’Ostello per lavoratori di Cassibile, che è passato da poco sotto la gestione della Croce Rossa; magari di questo se ne riparlerà. In compenso, già che al mattino presto del sabato ero da quelle parti, ho provato a vedere se mi ricordavo la strada per andare di nuovo ai laghetti della Riserva di Cavagrande del Cassibile.
Lunga strada in macchina, a dire il vero, quasi 10 km lungo un percorso che a volte ti fa pensare di essere finito in qualche landa desolata e deserta. L’importante è non lasciare mai la strada asfaltata (all’inizio ho sbagliato e un piccolo branco di cagnoloni, forse nemmeno randagi, mi ha accompagnato per un po’, fino al rientro sulla retta via!). Insomma, dopo una decina di km si giunge al segnale che indica il sentiero Mastra Ronna. Lascio la macchina e mi avvio a piedi, non fidandomi troppo del cartello “Parcheggio” e soprattutto della strada, così aspra e irregolare. Buona per un trattore, ma devastante per le macchine, anche se poi le incontrerò… Passo vicino alla casa del primo allevatore e mi domando come possa essere la vita da queste parti, quasi in esilio. E finalmente arrivo alla postazione Stallaini, punto di partenza del sentiero. La volta precedente avevamo preso una strada diversa, ma questa mi sembra decisamente più tracciabile e sostenibile.
Così inizio la discesa, ricordavo che non ci voleva molto. Dopo una sosta mozzafiato al belvedere per la Grotta del Brigante (con la sua stranissima ed originale scaletta scavata nella roccia) riprendo il sentiero e in meno di mezz’ora si arriva ai laghetti. Non mi azzardo a fare un tuffo, il sole ancora non scalda questa zona, ma almeno i piedi al fresco riesco a metterli. E poi rapidamente si riprende la strada del ritorno. Poco più di mezz’ora e il dislivello (saranno 200 mt) viene completato e riprendo la via di casa. Ci voleva una passeggiata tra i monti, dopo tutto questo mare. Quando ripasso dalla base ci sono gli operatori regionali, mi chiedono se arrivo dalla parte opposta, quando gli rivelo che il mio tragitto era solo di andata e ritorno mi invitano a firmare il libro degli ospiti. Nulla di strano che negli ultimi 3 giorni nessuno sia passato da queste parti, tra tempeste e brutto tempo, ma oggi il sole è davvero splendido, almeno per la mattinata.
Peccato che il cellulare mi abbia abbandonato prima di poter riprendere anche qualche immagine dei laghetti e della totale tranquillità di questi luoghi.
E proprio il mare nel pomeriggio annuncia una sorta di spiraglio, complice il sole che recupera un po’ sulle nubi. Così prendo la bici per andare a vedere se questa volta l’acqua della zona della tonnara di s.Panagia sia più accogliente. Ma… niente da fare, tempo di arrivare e le nuvole riprendono il sopravvento.
Insomma, tra monti e mare, una giornata quasi tutta natura.
Anni fa Baccini, con il suo tormentone estivo, ricordava che “Sotto questo sole è bello pedalare…” e tutto il resto. bene, tutto questo resto, insieme al bello, ovviamente, l’ho messo nel bagaglio delle esperienze compiute in questi giorni…
Sabato 21, insieme a mio fratello Paolo, ci siamo lanciati nell’impresa di farci qualche chilometro sull’antica via del sale, in groppa alle alpi liguri che fanno da cornice alla nostra terra. L’idea di una sgroppata in montagna riaffiora ogni estate. Lo scorso anno ero riuscito a fare una scappata ad Entracque, verso il rifugio Genova. Quest’anno le cose sono un po’ diverse e mi sarei accontentato di una decina di giorni casalinghi, insieme a mamma. Ma qualche eccezione si può ben fare. Così avevamo cominciato a valutare questa possibilità.
Allora, sabato mattina, all’alba (si dice sempre così ma erano ormai le 7) ci siamo diretti verso Monesi. In macchina fino a Imperia, poi verso Pieve di Teco e quindi, inerpicandoci su stradine non sempre perfette (le recenti alluvioni hanno lasciato il segno e Monesi è stata per mesi praticamente isolata dal resto del mondo!) eccoci arrivati al punto di noleggio della Mela verde. Naturalmente l’idea era quella di utilizzare delle e-bike e siccome era la prima volta che le usavamo in montagna, non sapevamo ancora bene a cosa andavamo incontro.
Senza tanti preamboli e seguendo le semplici indicazioni ricevute al noleggio da Marco, abbiamo subito iniziato a pedalare, apprezzando il valido contributo della pedalata assistita. Le bici erano della Fantic (io ricordavo solo che anni fa era una apprezzata marca di moto da trial) e il funzionamento molto intuitivo. Le batterie erano piene e la salita era tanta. La meta che volevamo raggiungere era il Rifugio don Barbera (un nome evocativo, ti fa pensare ad un gemellaggio con don Perignon o altri riferimenti da cantina…in montagna non stona di certo).
Il primo tratto di strada (i primi 5 km), fino al bivio per il Saccarello, era molto intenso, tutto in salita ma con un fondo stradale accettabile, alcuni tratti asfaltati, altri in cemento, pochi tratti di sterrato. Ma arrivati al bivio la musica cambia. Appena salutate le caprette all’alpeggio abbiamo preso il (duro) contatto con la strada bianca, la sua distesa di pietre e ciottoli, le buche e tutto quello che fa di una strada di montagna il “bello” della montagna. Ma intanto si pedala. Il fondoschiena comincia a sognare cuscini e soffici supporti, ma ad ogni scossone viene riportato crudamente alla dura realtà.
Tanti gli escursionisti, le moto, le altre bici, ma anche le macchine, le jeep… a volte la polvere si poteva tagliare a fette e l’aria di montagna sembrava un po’ deturpata. Per fortuna in poco tempo la situazione tornava limpida, il panorama riprendeva il sopravvento e l’occhio, soddisfatto della sua parte, si rappacificava.
Forse un’idea del percorso può rendere meglio l’idea del nostro tour. Siamo partiti da quota 1370 e siamo arrivati fino a 2240, con un totale di 50,4 km: per essere una prima volta, niente male davvero.
Dopo una pedalata di oltre 2 ore siamo così arrivati al tratto finale, discesa bruttina e piena di sassi, ma pur sempre discesa (e uno già ripensa al ritorno!); giunti al rifugio don Barbera, bello affollato di persone, abbiamo messo le bici sottocarica e ci siamo rifocillati un po’. E subito dopo, un po’ di sgranchimento di gambe nei dintorni, a gustare il panorama.
Quando decidiamo si ripartire scopro, dopo svariati minuti, che il tappo della ricarica non era stato chiuso bene e quindi la bici non voleva ripartire. Così, dopo averla spinta a mano per il primo tratto di salita, dal rifugio fino alla strada, rieccomi pronto per la partenza. Avevo un piccolo ritardo su Paolo, un paio di minuti, e quindi speravo di riprenderlo abbastanza presto, immaginando che avesse già iniziato il ritorno. Lo cerco lungo la strada e così com’ero, con gli occhiali da sole, mi sembra di vederlo ormai più avanti, con la sua maglia blu. Ma sono in tanti a pedalare in questo momento e non è certo facile superare il gruppone. Così penso di accelerare un po’ per riprenderlo. Il caso ha voluto invece che Paolo mi stesse aspettando proprio lì vicino e forse stava contemplando il panorama dall’altro versante. Così nell’illusione di raggiungerlo e lui nell’attesa di rivedermi… abbiamo ripreso la strada del ritorno separatamente. Ma poco danno, non c’erano molte possibili deviazioni… E siccome i 2 telefoni li avevo io nello zainetto, difficile sentirsi anche perché di campo telefonico, a quella quota, sopra i 2000, ce n’era proprio poco.
Il ritorno, o meglio, la discesa, tolti alcuni pezzi in salita, è stato un po’ massacrante. Salti, ciottoli, pietre, polvere (tanta polvere, con tutte le moto che salivano a quell’ora…) tutto documentato con pignola precisione dal mio fondoschiena che ha rilevato ogni buca. Ma vuoi mettere il panorama, gli scorci che si aprivano dopo una curva, il percorso in mezzo ai larici, il profumo di ginepro? Davvero un bel ritorno, nonostante tutto.
A forza di pedalare sono così ritornato al punto di partenza. Quando mi accorgo che Paolo non era ancora rientrato, nel dubbio sul cosa fare, riprendo la bici e risalgo un po’, giusto per attenderlo in un luogo più tranquillo e riposante. Infatti dopo non molto eccolo arrivare, con la sua maglietta blu 😉 e ricompattiamo il gruppo. Ormai il percorso è compiuto.
Sulla strada del ritorno una piccola deviazione verso Lucinasco, per ammirare il laghetto e la splendida chiesa di s.Stefano, del XV sec. Il panorama, come dice mio fratello Paolo, fa pensare più a una collina e un borgo toscano che al nostro entroterra ligure, se non fosse che da tutte le parti siamo circondati da olivi, olivi e olivi. E poi finalmente a casa, dove posso finalmente riconciliare le mie povere ossa su qualcosa di più morbido. Tanto lo so, il peggio arriverà domani 😉
E restano quindi le foto di questa giornata, comprese le aquile che volteggiavano fiere sopra di noi!
Correvano (e anche velocemente) gli anni 80. L’hobby della fotografia occupava uno spazio discreto…. Dopo le mie prime sperimentazioni di sviluppo e stampa in B&N il passo successivo si è indirizzato verso le diapositive. Facevo scuola e spesso i fotomontaggi (all’epoca era quasi il massimo della multimedialità) mi sembravano una soluzione percorribile e stuzzicante.
E naturalmente l’idea era quella di lavorare per produrre qualcosa di duraturo, da riutilizzare lungo gli anni. Le diapositive mi sembravano lo strumento adatto. Tutta plastica, coloranti a prova del tempo (almeno sul breve periodo) e così ho iniziato a prediligere questo metodo.
Durante l’estate, poi, quando c’erano i campi estivi ad Entracque o Lavarone, era uno degli appuntamenti fissi. Facevo foto al gruppo, durante le escursioni, nei vari momenti delle attività e poi, calcolando con pignoleria i tempi, si mandava a sviluppare il rullino nel fotolaboratorio più vicino (Cuneo o Trento) e spesso mi riusciva di proiettare le foto prima della partenza dei ragazzi.
Immaginatevi quindi la scena: nel cortile ormai buio, con un mega lenzuolo steso alla belle e meglio come schermo, tra due alberi, dopo aver sistemato cavi, cavalletto e proiettore, tutti i ragazzi in semicerchio per rivivere i momenti clou della settimana. Persino le diapositive sballate e fuori fuoco potevano servire; col pennarello ci scrivevi sopra il titolo della serata, la data del campo, qualche commento… In effetti era già possibile l’editing manuale (pennarelli indelebili con punta superfine, ovviamente). Durante lo show si sprecavano le esclamazioni, gli “Ohhh…!” di partecipazione e le pernacchie per qualche eventuale fuori scena… o foto simpatica.
Poi gli anni passano, le diapositive restano chiuse nelle loro scatole, o nei pratici (?) fogli in plastica che ne consentono una visione più rapida. Dopo gli anni 90 iniziano a farsi largo le macchine digitali. Ricordo ancora una delle prime che ho utilizzato, una Fuji con sensore da ben 3 Megapixel. E si apriva il dibattito se il digitale avrebbe mai soppiantato le foto e le diapositive analogiche, con una risoluzione decisamente superiore e per quei tempi irraggiungibile. Ma il digitale ha iniziato a galoppare e i risultati li abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. Cellulare da 54 Mpx, o con tripla fotocamera, ecc. ecc. Il sorpasso è ormai consegnato alla pratica quotidiana.
E dove sono finite le vecchie diapositive? Da un trasloco all’altro ho cominciato a sistemare le vecchie diapositive in qualche scatola di scarpe più robusta, in raccoglitori più pratici. Per poi lasciarli in qualche scaffale. Così le ho persino dimenticate in un sottoscala piuttosto umido (a Giugliano) e quando mi hanno detto che le avevano ritrovate ho sperato di poterne fare ancora qualcosa.
Gli scanner per diapositive sono ormai strumenti abbordabili, anche se per ottenere una qualche resa professionale è necessario rivolgersi a prodotti di classe superiore. Naturalmente tutto dipende dalla qualità delle diapositive. E quando mi sono ritrovato tra le mani le tante scatolette, nutrivo un bel po’ di aspettative: finalmente potrò recuperare le foto dei campi estivi di 30-40 anni fa! E invece… Dopo averle aperte e passate in controluce, la delusione cocente. Molte diapositive erano solo più un ammasso di pigmenti colorati, macchie colorate o suggestioni buone per Andy Warhol… Sicuramente l’umidità e il calore hanno compiuto il disastro. Solo qualche scatoletta chiusa meglio ha fornito qualche resto leggibile.
Ma ogni scarrafone è bello a mamma soia e quindi, ne ho recuperate un po’, anche se la qualità è decisamente bassa; in molte si fatica a riconoscere le persone, in altre la fantasia deve giocare un ruolo davvero ingombante.
Ho recuperato alcuni vecchi campi scout, qualche immagine della mia prima classe come insegnante di scuola elementare, qualche incontro marista a Las Avellanas (1986) e altri scampoli memorabili.
Ma in molti casi la qualità è così bassa che serve molto coraggio per conservare le immagini. Giusto per un confronto, ecco alcune diapositive del 1981, eravamo a Trevi nel Lazio, per il nostro campo con i lupetti del SLM (io ero il Baloo ufficiale del gruppo), come Akela c’era Stefano Strano, ma tranne qualche immagine i volti sono proprio illeggibili. Persino quello di Laura Lega, che magari meritava qualcosa di più (in quegli anni era stata eletta Miss Cinema del Lazio, attualmente è il capo dipartimento dei Vigili del Fuoco!); ho rintracciato persino un antesignano dei selfie, un mio autoscatto nella sala dei bottoni del campo.
Speriamo che giunti a questo stato di “conservazione”, avendo passato il tutto in digitale, non succedano altri cataclismi, ma basterebbe riflettere sui recenti attacchi informatici, con ransomware selvaggio che cripta tutti i dati del tuo hard-disk, per capire che i disastri sono sempre più frequenti dei salti evolutivi!
E finito il lavoro, senza troppi rimpianti, tutto il materiale è stato eliminato definitivamente. Così al prossimo trasloco ci saranno meno anticaglie inutili da dover sistemare. Ma sono piccole lezioni utili, per ridimensionare le cose, la loro durata e persino la loro utilità.
Ci vorrebbe proprio un fantasma qui a Siracusa, più che all’Opera direttamente al Teatro. Per intenderci, il Teatro Comunale.
Perché solitamente quando si abbina il teatro a Siracusa si pensa immediatamente a quello greco, ben più famoso. Ma non è l’unico.
Ho la fortuna di conoscere personalmente chi se ne sta occupando “dietro le quinte”, perché Anna V. è una delle responsabili delle mostre che in questi due mesi, luglio e agosto, si svolgeranno proprio nella sede del teatro e filtrando tra le tante notizie che sa presentare con garbo ai tanti turisti e curiosi che si affacciano nel foyer, si possono davvero comprendere le sfortunate vicende che questo edificio ha subito nella sua storia, nemmeno tanto antica (quando a Siracusa si parla di antico l’unità di misura sono i millenni, non certo i secoli o gli anni!).
Domenica scorsa ho approfittato di questa risorsa e insieme agli altri amici del coro di S.Martino (una attività che ormai condividiamo da quasi un anno) ci siamo trovati insieme per una visita ad hoc. Sia alla mostra di acquarelli, davvero splendidi che della struttura teatrale vera e propria (e seguiranno altre mostre, sia di quadri che di fotografie, da non perdere e non solo perché tutto gratis!)
La mia prima sorpresa è stata quella di incontrare anche Chiara, anche lei nello staff di chi gestisce momentaneamente questo luogo; con la scusa della mascherina non l’ho subito riconosciuta, ma ci ha pensato lei 🙂 visto che è una delle volontarie più assidue del nostro Centro CIAO, dove viene per aiutare i ragazzi delle medie per i compiti. Proprio vero che il mondo è piccolo!
Sentivo tutte queste informazioni comodamente seduto sulle splende poltrone, ammirando una serie di palchi davvero suggestivi, un soffitto in stile quasi liberty e mi chiedevo quanto tempo ancora servirà per una riapertura di questa splendida risorsa cittadina. Ovvio che poi sono andato a sbirciare anche su Wikipedia per allargare il panorama.
Abbiamo così scoperto velocemente la storia di questo teatro. Nato sull’onda delle tante requisizioni di terreni appartenenti alle congregazioni religiose nei primi anni del Regno d’Italia (che per fare cassa non ha esitato a confiscare di tutto, in particolare se i proprietari erano religiosi, conventi o abbazie…), si deve essere trascinato da subito una sorta di maledizione clericale perché non ha certo avuto vita facile. Durante i lavori di costruzione si sono subito incontrate difficoltà, parte della facciata tendeva a staccarsi e lesionarsi. Così è stato chiamato l’architetto Almeyda di Palermo per portare a conclusione l’opera, quasi compromessa. Erano gli anni dell’acciaio e del ferro (Eiffel aveva appena realizzato una mostruosa torre di 300 m. a Parigi!) e quella sembrava la soluzione ottimale, così tutta la zona dei palchi e la sala è stata costruita con colonne in ferro, ma rivestite in legno perché i cittadini trovavano questa soluzione troppo “fredda” e inadatta (o forse troppo audace). Ma i lavori andarono a rilento e l’inaugurazione avvenne solo alla fine del secolo, nel 1897.
I guai però continuarono dopo una cinquantina d’anni; venne demolito un palazzo adiacente e costruito un nuovo edificio per appartamenti, ma a causa dei garage realizzati nel sottosuolo la statica del teatro ne risultò talmente danneggiata che dovettero chiuderlo (la parte dietro la scena era praticamente rovinata e inutilizzabile, si salvava solo la parte riservata al pubblico, con i palchi, proprio quella realizzata ….in ferro!
In pratica dal 1960 il Teatro resta chiuso. Si parla di una ristrutturazione e riapertura, ma i fondi mancano, si giunge così al 2000, qualche lavoro parziale e una timida ripresa. Però la maledizione antica si riprende la rivincita e un fulmine, nel 2018, fa saltare tutto l’impianto elettrico. Ci sarebbe materiale per una novella verghiana, o un testo di Vittorini (già che c’era e forse lui il Teatro è riuscito a vederlo in funzione!).
il fantasma dell’Opera all’opera 😉
Sull’onda di queste emozioni e disponibilità mi è venuta così l’idea di farlo visitare anche ai nostri bambini del centro estivo. Detto fatto, Anna entusiasta di questa avventura, venerdì mattina ci siamo proprio recati a teatro, dopo aver prima fatto uno splendido percorso in barca grazie ad altri amici.
Siamo così giunti con la nostra banda di bambini e ragazzi in questa sede speciale. Per l’occasione Anna ha praticamente blindato il teatro, così noi eravamo gli unici occupanti. Dovevate vederli a scorazzare per la sala, illuminati dai lampadari (dono di D&G, per il modico valore di 20mila €, dopo lo spot realizzato nel 2013). Poi siamo entrati nel teatro vero e proprio. I bambini erano già stanchi e non servivano molte parole, così siamo poi addirittura andati a fare visita al Palco Regale, entrando anche in quelli adiacenti, come se fossimo stati invitati per una serata di gala.
Chissà cosa pensavano spostando i pesanti tendaggi che isolavano quegli ambienti, sia per la luce che per il rumore. Ad un certo punto è persino comparso il ….fantasma dell’opera: un lenzuolo bianco si aggirava sul palco. “Ma non è un fantasma, non lo vedi che ha le scarpe?” diceva qualche bambino, come se i fantasmi potessero avere le vesti ma non le scarpe (che buffe teorie che hanno certi bambini). Però adesso il fantasma se lo ricordano tutti, così come ricordano i deliziosi pasticcini che hanno assaggiato prima del saluto e del ringraziamento finale. E’stato davvero un modo speciale per concludere la seconda settimana del nostro campo estivo.
Cosa dire, alle volte incrociando amicizie e disponibilità si fanno cose davvero speciali. Come questa visita, che rende almeno un po’ del senso di una simile costruzione. Speriamo davverro che da agosto in poi le cose possano iniziare a cambiare (perché, mi diceva sempre Anna, dovrebbero firmare il contratto per la nuova gestione dello stabile).
Staremo a vedere, anzi, possibilmente, ad assistere.