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Categoria: libri

Se capitasse a noi…

Se capitasse a noi…

Ho incontrato i libri di Nicolò Govoni un paio di anni fa e sono rimasto colpito dalla sua traiettoria umana, in piena “ascesa” e per molti versi davvero esemplare. Da un semplice (semplice? mica tanto) inizio come volontario fino a trasformare questo suo desiderio in una forte decisione che ha letteralmente trasformato la sua vita. Continuo a seguirlo su Instragram (uno dei pochi che guardo con attenzione) e nei vari eventi in cui rintraccio la sua presenza. Mi sembra un esempio davvero luminoso di come si possa prendere sul serio la vita e tutto ciò che le gira intorno, senza lamentarsi di quanto male vadano le cose, ma rimboccandosi le mani e cercando di fare la propria parte.

Il suo primo libro, letto un paio di anni fa, racchiudeva la sua esperienza vitale; una sorta di diario che spiega anche la nascita dell’organizzazione umanitaria Sill I Rise. Di solito non dedico molto tempo o spazio alla narrativa, ma l’idea di curiosare sul suo recente romanzo, Fortuna, era ben motivata. Mi sono ben guardato dal leggere qualche recensione prima (anche se le stelline sintetiche sono sempre e comunque un richiamo, un canto di sirena), ma dopo pochi giorni di lettura, ritagliando il tempo quando capita, penso di aver impegnato bene questi momenti. Sarà l’affinità dell’impegno, la sintonia di idee, ma la storia è interessante…

All’inizio del racconto si fatica, volutamente, a situare bene i confini e individuare i personaggi. Chi sono queste 3 persone sul barcone, poi sbarcate, separate, profughe in qualche remota parte del mediterraneo? Avendo toccato un po’ con mano questa realtà, uno si immagina subito un parterre di volti africani, di profughi asiatici… quando invece, dopo alcune pagine, si fa strada la consapevolezza che i migranti di questo volume provengono dall’Italia, da una Milano da poco colpita dai bombardamenti (addio, povero Duomo), una società dilaniata dalla guerra civile e da una morte grigia che reclama il suo tributo di mascherine e contagi, comincia a farsi strada una domanda: e se tutto quello che riguarda i migranti di oggi dovesse toccare a noi? Se dovessimo essere noi i passeggeri e protagonisti dei naufragi, dei respingimenti, delle assurdità burocratiche che spesso vedo ripetersi nei confronti dei nostri ragazzi del Gambia, Ghana, Senegal, Costa d’Avorio, Bangladesh…?

L’idea di un ribaltamento totale (noi al posto di “loro”) viene spesso utilizzata per innescare discussioni e riflessioni, ma non mi risulta che finora fosse il perno di qualche romanzo d’attualità, è comunque una idea che regge e stimola la riflessione.

La vicenda si concentra poi sull’enorme campo profughi in cui i nostri 3 protagonisti vengono inseriti; un centro diretto dalle grandi organizzazioni umanitarie, raccolte sotto l’egida di una Fortuna corporation. In questa sede i migranti sono divisi per provenienza e troviamo quindi gli italiani, i francesi, i greci, i tedeschi… Sarebbe interessante immaginare proprio noi, con la nostra storia e cultura, nei panni dei profughi per guerra, carestie, epidemie. Cosa succederebbe?

Nel campo si agitano diverse iniziative e strategie (niente spoiler) ma i protagonisti poco alla volta si trovano impegnati in uno sforzo di liberazione che si concluderà, con numerosi colpi di scena, in uno scenario non del tutto rassicurante, ma per lo meno in grado di scrollare di dosso la sensazione di essere tutti parte di un grande meccanismo difficilmente superabile.

Nel romanzo mi sembra di cogliere alcune parti un po’ ingenue e alcuni meccanismi forse un po’ precipitosi (ragazzini che sanno a malapena leggere che in poche settimane diventano abili hacker in grado di riconfigurare un sistema informatico, giovanissime fashion-blogger in grado di affrontare situazioni critiche e rivolte popolari, capi politici e masse di gente che agiscono all’unisono in modo un po’ semplicistico, ragazzine quindicenni che si esibiscono in discorsi di feconda oratoria…) ma mi sembrano peccatucci veniali che non tolgono al testo la capacità di suscitare domande. E le domande che Govoni propone servono per formulare le risposte che oggi servono. Nella chiusa del libro l’autore traccia una breve sintesi del suo ultimo impegno, dalla visita al campo profughi di Lesbo, alla fondazione di una prima scuola per difendere i diritti dei minori, poi la fondazione di una simile scuola in Turchia e finalmente in Kenya, dove oggi l’associazione di Govoni è in grado di offrire ai bambini persino un baccalaureato prestigioso a costo zero. Penso che questo traguardo sia stato raggiunto passando tra i tanti problemi che il libro stesso affronta e presenta in modo romanzato. Un testo originale e capace di far riflettere sui meccanismi che oggi dirigono e conducono le danze sul tema delle migrazioni.

Complimenti all’autore e non solo per il libro…

Parole in corso

Parole in corso

Avevo letto tempo fa, sfogliando un libro di Carofiglio, un passo davvero illuminante, sulla pregnanza delle parole.

Parole che incidono sulla vita più di una lama, più di un evento.

Dopo un inesorabile momento di oblio quel piccolo passo ha cominciato a riaffiorare saltuariamente, poi è riemerso a brandelli nella memora, ma in modo sempre poco chiaro. Sapevo insomma di aver letto un testo che spiegava l’importanza del conoscere le parole ma non riuscivo più a far quadrare le righe e il contenuto.

Ero giunto persino al punto di scrivere una mail all’indirizzo dell’autore (quanto è difficile trovare la mail “vera” di qualcuno che vorresti davvero contattare!), ovviamente senza mai ricevere una risposta.

E poi, quando si dice il caso, eccolo qui il pezzo che stavo cercando, nel testo La manomissione delle parole, e proprio nelle pagine iniziali.

Il piccolo riferimento è questa citazione illuminante di uno studio di tanto tempo fa

Il fatto che nel linguaggio ci fosse un vuoto, mancasse un elemento così importante, causava addirittura il disgusto della vita, spingendo al suicidio le persone. Perché non si era in grado di esprimere quello che si stava covando dentro, come una gestazione indigesta che ha bisogno di uno sfogo.

E’ l’idea che questo fenomeno possa ripetersi in altri contesti, che la mancanza o la non conoscenza del termine giusto potrebbe impedire una vita migliore, la conoscenza chiara delle cose. Pensiamo spesso alla conoscenza come un cumulo di righe accatastate, una sull’altra, una immensa biblioteca. Difficilmente ci concentriamo sulla stabilità di questo edificio, sulla consapevolezza che ogni elemento sia al suo posto. Forse mancano mattoni importanti per l’edificio e l’insieme potrebbe traballare o crollare. Forse non abbiamo ancora trovato alcuni elementi importanti che invece servirebbero a dare maggior senso.

Serve tempo per riflettere, per lascia sedimentare le cose, ma anche per andare alla ricerca e tentare di dare uno sguardo completo, per capire se il panorama è finalmente in grado di dare una risposta esauriente.

A volte un libro serve anche solo per queste poche righe, per questo messaggio che trasmette. E per quei meccanismi che innesca nella mente, alla ricerca di senso e significati.

Dire parole può modificare il corso delle cose, ma per capire le cose abbiamo necessità di trovare parole nuove, diverse, che raccontino in modo più esauriente e vero quanto si incontra. In questi giorni tragici di guerra che vediamo moltiplicarsi ad ogni schermo, assistiamo anche al tentativo, difficilissimo, di convincere molti che la guerra sia ormai una parola da demolire, per lasciar spazio a quanto ormai sembri solo più un volto efferato della barbarie. Come se la guerra autorizzasse una concezione possibilista della realtà, la difendesse quasi e ne manifestasse una sorta di necessità, quasi nobilitando il termine. Oggi siamo in grado di rifiutare questi compromessi e di far emergere l’assurdo che è già sotto i nostri occhi anche se ogni giorno siamo costretti a fare slalom culturali tra news, fake, modi di annunziare capziosi, evidenti forzature e reticenti confessioni.

Quanto ancora ruota intorno alle parole…

Il tempo e l’acqua e altre storie…

Il tempo e l’acqua e altre storie…

Ho finito da poco la lettura di questo testo, non so nemmeno io perché mi ha colpito in modo particolare fin dall’inizio, vuoi per l’immagine in copertina, vuoi per l’impronunciabile nome dell’autore, vuoi, sicuramente, per il modo diretto e personale di toccare il tema del cambio climatico in modo diretto, personale e convincente.

Il tempo e l’acqua, dell’autore islandese Andri Magnason
Difficile inquadrare questo libro in un genere specifico; una via di mezzo tra il saggio, la narrazione frammentata di una saga familiare islandese, il recupero di tradizioni antiche e suggestioni moderne, la riflessione e la narrazione poetica.

Ma lo scopo è molto diretto: l’autore manifesta un’accorata necessità di dare un preciso contributo al tema del cambio climatico che, ormai lo sappiamo, condizionerà la vita di tutti gli uomini sulla terra nei prossimi decenni: l’innalzamento delle temperature, la perdita dei ghiacciai, il tentativo coraggioso e disperato di ridurre le emissioni di CO2 per non compromettere in modo definitivo la vita umana dei nostri discendenti… sono le tematiche intorno al quale si sviluppa il testo, con una visione che sembra inizialmente troppo legata alla terra dell’autore, l’Islanda, ma che rapidamente abbraccia tutti i continenti.

Si legge con passione e si rimane rapidamente avviluppati dalle vicende della famiglia dell’autore e si rimane per lo meno stupiti che partendo da un luogo considerato periferico sotto vari aspetti come è l’Islanda, si arrivi invece rapidamente nel cuore di vicende e personaggi centrali e ben conosciuti, dal Dalai Lama a Tolkien, dai fratelli Wright al chirurgo di Oppenheimer…

Il drammatico tema del cambio climatico si snoda per tutto il testo e l’autore si domanda spesso come faccia l’uomo ad essere così ottuso e superficiale da sottovalutarlo in modo così sbrigativo (si prova quasi una sensazione simile a quella che può suscitare il film Don’t look up). Nei vari capitoli, legati da un filo geografico o biografico, presenta molte sfaccettature di questo problema e delle possibili soluzioni, a livello personale. Dalle escursioni sui ghiacciai islandesi compiute dai nonni alla passione sfrenata per i coccodrilli di uno zio, ogni argomento riconduce l’attenzione al fatto che la nostra responsabilità di persone potrà essere l’unica carta vincente per affrontare questa situazione.

Molti i dati forniti (e la bibliografia sulla quale l’autore si è documentato è davvero interessante e vasta), alcuni dei quali originali e pungenti, tanto da richiamare l’attenzione su fenomeni spesso affrontati in modo molto superficiale. Basterebbe questo libro a sfatare e demolire molte posizioni negazioniste; il tono è sempre personale, ragionato e partecipe. Interessante al proposito l’intervista con il Dalai Lama, incontrato quasi per caso a inizio libro e ricercato poi, su suo esplicito invito, nella parte finale. Dalla scienza alla religione, dalle tradizioni ai dati di fatto, tutto viene presentato in modo coerente e appassionato.

Ne emerge un testo prezioso, interessante, con molte sfaccettature e tonalità, utile per una riflessione personale su quanto possiamo noi fare, già da adesso, per guardare a questo problema ormai ineluttabile, con uno sguardo più attento e preparato.

Il debito che abbiamo coi libri

Il debito che abbiamo coi libri

Quando in autunno 2021 è uscito questo libro, Papyrus, di Irene Vallejo, ho iniziato subito a tenerlo sotto osservazione. Sarà che ero andato da poco a visitare il museo del Papiro, una delle incredibili eccellenza di questa ormai mia piccola città, Siracusa…
Ma non solo il titolo era intrigante, o le recensioni, o la classifica che lo hanno visto nei primi posti in mezzo occidente… mi riferisco proprio al suo contenuto a dir poco enciclopedico. Sarà un classico esempio di autoreferenzialità, ma un libro che parla di libri è decisamente un richiamo forte per chi di libri si nutre.

E oggi pomeriggio, complice la voglia di mettere un po’ di fretta alla primavera, perché non andare a leggerne qualche pagina, qualche foglio, o almeno qualche Kb/% nel luogo dove anche le pagine di questo testo si sentirebbero “a casa”?

Lungo il fiume Ciane il papiro è talmente diffuso e gradevole da vedere che ci si dimentica subito di essere immersi in uno dei pochi posti al mondo, escluso l’Egitto, dove questo succede (per la cronaca in Sicilia esiste un solo altro luogo dove cresce spontaneamente, presso Fiumefreddo); il sentiero che costeggia il Ciane, per alcuni km, è anche una delle passeggiate più gradevoli e caratteristiche di Siracusa, un po’ trascurata, ma forse proprio per questo molto tranquilla, silenziosa e pulita. Basterebbe qualche piccolo intervento per trasformarla in una delle piste ciclabili più affascinanti dell’isola, un suggerimento che potrebbe accrescere il valore culturale di questi luoghi, che meritano certamente di più.

Poche settimana fa il percorso era chiuso (a causa di allagamenti e fango sul sentiero, che passando proprio a fianco del fiume è sovente in condizioni difficili) ma oggi il cancello era nuovamente aperto. Alcune zone sono state anche sistemate, l’erba tagliata e reso il percorso più gradevole. Peccato che arrivati alla sorgente si debba constatare il piccolo guaio accaduto alla passerella in legno, che a causa del maltempo è davvero pericolante. Ma ciò non toglie quasi nulla al fascino del luogo. Posare la bici e passeggiare nella calma di questi sentieri erbosi sorseggiando le parole di questo libro è veramente dissetante.

E quella che segue è la rapida recensione che ho sottoposto ad Amazon; se anche non venisse accettata (per i soliti motivi che certe digressioni personali non sono molto coerenti con la funzione di “recensione”,… poco importa – cmq dopo nemmeno 2 ore la recensione era online, forse si fidano un po’ troppo?), riflettere su un testo serve più a noi che ad altri.

Penso di essere uno dei pochi fortunati a poter leggere questo libro mentre passeggio lungo un fiume dove il papiro è ancora di casa, il Ciane, presso Siracusa. E sempre qui la carta di papiro non ha mai smesso di essere prodotta, persino quando in Egitto se ne era persa la tecnica. Leggere quindi l’avventura del libro, dal giunco all’e-reader e poterla toccare con mano mentre sfioro il ciuffo di un papiro, fa apprezzare ancor di più questo testo ampio, ricchissimo di informazioni, di passione per la cultura (e i libri in primis) di esperienze personali non comuni.
Lo sto centellinando con calma, perché è davvero ponderoso. Ne avevo persino preso una copia cartacea per un regalo e sfogliarlo dal vero mi ha fatto un certo effetto, visto che ormai sono più di 10 anni che ho quasi dimenticato la carta vera e mi affido solo al digitale.
Non ho quindi concluso il testo ma l’apprezzamento è oltremodo positivo senza ombra di dubbio. Le digressioni che l’autrice introduce mentre racconta la storia del libro, così come è giunto fino a noi, con la sua lunghissima traiettoria mai lineare, sono magistralmente collocate a sostegno della storia, come tappe necessarie e mai noiose. Si resta impressionati dalla mole di informazioni e di conoscenze che l’autrice dispensa e che sono un po’ il filo conduttore della nostra cultura occidentale. Uno splendido strumento per recuperare il senso della cultura e il gusto del sapere.

Come saremo e forse siamo già

Come saremo e forse siamo già

Ogni tanto mi prendo lo sfizio di un libro per sognare, per conoscere meglio e approfondire questo nostro mondo accelerato. Uno pensa di conoscere “abbastanza” le cose, ma appena sposti qualche sottile strato di cose apparentemente semplici, si inizia a penetrare in mondi spesso sconosciuti, sgargianti e sorprendenti.

Mi piace ricordare quel luglio del 1969, con i miei pochi anni e le poche conoscenze che si condividevano, eravamo tutti appollaiati sui banconi di quel salone; eravamo in montagna, ad Entracque, le antenne della tv erano ancora rare in quel paesino. I nostri amici Zeno e Onorino si erano dati da fare per allestire una improvvisata ma funzionale sala tv.

Le immagini erano un po’ traballanti, ma la voce di Tito Stagno e i commenti che giungevano da Cape Canaveral si ascoltavano bene. Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità. Oggi invece, se riusciamo a mandare nello spazio un telescopio come il recente James Webb ci sembra quasi routine da trafiletto interno…

Ho scoperto in questo libro di Tommaso Ghidini, Homo caelestis, un affascinante resoconto di quanto l’uomo ha realizzato, scoperto e progettato in vista del nostro futuro nel campo della conquista dello spazio, perché è ormai di questo che si sta parlando. Molte informazioni e attività narrate nel testo facevano capolino tra i ricordi, mentre ne leggevo il preciso resoconto, perché spesso ne sentiamo parlare. Nel libro sembra invece di partecipare in prima persona, alle spalle dell’autore, a tante di queste fenomenali scoperte e innovazioni.

Meraviglia non poco vedere come l’autore sia così inserito, da protagonista, in molte delle principali scoperte e iniziative di esplorazione spaziale di questi ultimi anni. Ghidini collabora con l’agenzia spaziale europea (ESA), ed è incaricato della sicurezza e integrità dell’intero programma, insomma, uno del mestiere; si occupa di stampa 3D nello spazio, la soluzione che farà la differenza nel prossimo futuro, quando sarà necessario provvedere in loco alle necessarie riparazioni e ricostruzioni. Racconta nel testo di numerosi passaggi epocali verso le prossime tappe della scoperta e conquista spaziale. Lo fa con uno stile gradevole, spesso con incursioni e divagazioni umanistiche insolite e preziose per un tecnico.

I vari capitoli hanno una impostazione alta, non si limitano a raccontare episodi o innovazioni, ma le inseriscono in quella continua spinta che l’uomo ha nel crescere, comprendere, scoprire, andare oltre. Senza dimenticare persino un afflato religioso e valoriale che spesso sostiene l’intera ricerca. Un libro affascinante, ricco di notizie ed episodi vissute con la conoscenza e la competenza di chi vi ha personalmente collaborato.