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Categoria: libri

Storie coraggiose

Storie coraggiose

Una sorta di doveroso recupero, il mio, quasi un gesto per equilibrare culturalmente lo spazio che abitualmente mi trovo a decretare al mondo maschile. Ogni tanto recuperare l’altro polmone, l’altro sguardo, il femminile, non può che rendere più ricca l’esperienza e la conoscenza. Sarà anche per questo che mi sono fermato prima per la curiosità, poi per i contenuti e infine per scelta nel leggere questo libro. E poi, una volta iniziata la lettura, è stato giocoforza terminarla in giornata; si lascia leggere con accanimento. Buon segno.

Il testo di Silvia Ferreri ha un titolo apparentemente dimesso, quasi innocuo: Le cose giuste. Un messaggio implicito per definire il contenuto delle vicende narrate, qualcosa di necessario, esemplare, necessario: il giusto.

Un volumetto agile che riporta alcuni profili di donne che hanno sicuramente tanto da insegnare anche agli uomini. L’altra metà del cielo rivela forze, capacità e caratteristiche ben necessarie per la vita di tutti.

Il breve gruppetto di donne che vengono presentate toccano argomenti e temi molto diversi, tutti di attualità e di rilevanza forte. E sono tutte visioni dall’interno dell’esperienza femminile, con lo sguardo di donna, per raccontare cosa si vive e si prova in situazioni particolarmente drammatiche.

Mi sono ritrovato a percorrere strade di cui spesso ho intravisto il dipanarsi anche nella mia esperienza, come docente, come persona appassionata della legalità, come religioso… E le storie che vengono raccontate in modo molto diretto e concreto non fanno sconti a nessuno.

Si va dalle difficoltà di una coppia che non potendo avere figli propri si imbarca nella difficile avventura della open adoption (che proprio non conoscevo) fino alle drammatiche vicende della mamma catechista che si vede crollare un mondo dove aveva riposto fiducia da sempre, quello della chiesa (e della chiesa milanese, che per tanti aspetti dovrebbe essere un punto di riferimento sapiente).

Altre storie riguardano il trattamento che una famiglia sottoposta al programma di protezione per difenderla dalla ‘ndrangheta, che porta al paradossale finale di un doppio nemico, da un lato la mafia ma dall’altro lo Stato che con le sue vischiose burocrazie non riesce a garantire un livello di vita tollerabile. Si parla anche di anoressia, con il difficile percorso di una madre e una figlia che affrontano questo incubo (e il mio ricordo molto concreto va alle situazioni che ho incontrato, di vera disperazione…).

Leggere e sentire le riflessioni da parte di madri, mogli, donne, è certamente un modo significativo per cogliere meglio queste situazioni e poter contare su testimonianze forti e dirette; un gesto di partecipazione che rende migliori e più consapevoli anche noi uomini.

Due vite, anzi, 3

Due vite, anzi, 3

Una vota tanto sono in sintonia con gli eventi e con la grancassa mediatica. Ho appena concluso la lettura del volumetto “Due vite”, di Emanuele Trevi. Ho realizzato quando ero già a metà testo che era il vincitore dello Strega 2021, poco danno. Il fatto è che probabilmente è l’unico libro di carta che ho letto per intero in questo anno (o forse negli ultimi 3-4 facciamo anche 5 anni).

Ero a casa e saccheggiando gli scaffali di Massimo, mio fratello, ho indugiato un po’ su questo libro. Essenzialmente perché è davvero piccolo e quindi breve. In pochi minuti Massimo mi ha selezionato anche un paio di altri titoli, a cominciare da quello di Pia Pera, l’Orto di un perdigiorno, giusto per contornare la lettura.

Ma a casa ho appena iniziato a spulciare le pagine, ho terminato il testo una volta rientrato qui in Sicilia.

Strano che a vincere un premio così strombazzato sia un libriccino così fuori dagli schemi. Non è un romanzo, o una biografia (nemmeno doppia!), o un piccolo saggio, tantomeno un testo di poesie… Narra semplicemente l’incontro dell’autore con 2 differenti personalità: Rocco Carbone e Pia Pera. Del primo non ho evidenziato e non conservo praticamente nulla. Forse mi è sembrato antipatico e scostante come un po’ traspare dalle pagine di Trevi. Della seconda invece, sicuramente per la consonanza sul giardino, è rimasto il segno.

Ma come ogni libro che parla di qualcosa, il testo ci parla anche molto del suo autore, del suo approccio alla vita, delle sue conoscenze, delle sue vaste frequentazioni culturali, della sua curiosità.

Forse non è un caso che ancora oggi, sulla pagina del Post, questo intrigante influencer digitale dei nostri tempi, campeggia da tempo questa sua citazione: «Non siamo nati per diventare saggi, ma per resistere, scampare, rubare un po’ di piacere a un mondo che non è stato fatto per noi». Sicuramente opinabile e di parte, ma suggestiva. A questo libro il Post dedica anche, com’era prevedibile, un rapidissimo articolo, scarno e senza spoiler sul contenuto. Se proprio uno volesse qualche rapida informazione sul contenuto, sul web si trova di tutto.

Dicevamo del giardino: non conoscevo minimamente Pia Pera ed è stata proprio una scoperta. E’ bello quando un libro cioè un autore, insomma, una persona, fa dono agli altri dei percorsi culturali realizzati, delle scoperte umane incontrate sul proprio percorso. Trasmettere qualcosa di bello e di significativo allarga il raggio d’azione del bello, del vero. Non è poca cosa oggi, dove la diffusione è riservata quasi solo a news più o meno catastrofiche, segnali di timore, fake e tormenti vari. Nella vita e per la vita abbiamo bisogno di contenuti veri, che portino ossigieo e speranza. Anche semplicemente speranza laica, che è comunque intessuta delle stesse dinamiche della vita. Man mano che ci si addentra nei percorsi degli anni, che si accrescono le esperienze, viene a diluirsi sempre di più quel confine tra sacro e profano, per lasciar posto alle cose che contano. E nel sacro possono contare solo le cose che nel profano hanno futuro.

E’ stata così l’occasione per prendere in mano il testo di Pia Pera, dove lei ci racconta il suo rapporto con il giardino, le piante, l’orto, la verdura, i fiori, i semi e l’umile lavoro del giardiniere. Che è poi il primo mestiere che l’uomo ha ricevuto in esclusiva come custode dell’Eden. Mi sembra una buona indicazione (e nel mio caso la ritrovo persino siglata nel nome).

Insomma, una lettura piacevole, densa, ma piena di senso, uno stile scorrevole e gradevole impatto, colmo di piccole sorprese e di complicità.

Ora ho già promesso di passare il libro a Nina, lei sì che è una divoratrice di carta; vediamo come lo trova.

Metti una sera al teatro…greco

Metti una sera al teatro…greco

Ebbene sì, la mia prima volta al Teatro Greco di Siracusa per una tragedia era stata… 2 anni fa, a giugno del 2019, passavo di qui per caso… E già mi prefiguravo che questo potesse diventare un appuntamento quasi abituale dell’estate. Ma poi ci si è messo di mezzo il Covid e per tutto lo scorso anno il teatro è rimasto off-limit.

Ma finalmente la stagione è ripartita e abbiamo subito approfittato delle facilitazioni per i residenti; così con tutta la nostra comunità siamo andati a vedere, giovedì sera, la tragedia più famosa di Euripide, le Baccanti. Avevamo scelto questa (ogni stagione propone 3 tragedie), perché sicuramente era quella che avrebbe avuto un impatto più significativo, visto che a curarne l’allestimento scenico era uno dei fondatori della Fura dels Baus; ed è stato proprio così. Una rappresentazione che lascia il segno.

A cominciare dalle macchine presenti sul palco, enigmatiche e poco chiare fino a quando la rappresentazione non ha inizio. E allora ecco svelarsi davanti agli occhi le trovate imponenti di un coro che invece di restare tranquillo in qualche angolo del palco, inizia a volteggiare nello spazio, con gli attori sospesi in ardite formazioni volanti, agganciati ad una poderosa gru.

Non mancano poi le invasioni di campo, con gli attori che si dispongono quasi ad accerchiare il pubblico, salendo le scalinate della cavea e immergendosi quasi tra le persone. Coinvolgimento totale e compenetrazione di coro e spettatori, pubblico e privato.

Non avevo mai letto il testo delle Baccanti, salvo qualche rapida sintesi, giusto per capire di cosa si tratta. Veramente assistere ad una tragedia e leggerla sulle pagine di un libro sono due esperienze totalmente distinte. Ne valeva la pena…

Prima che lo spettacolo iniziasse mi sono divertito a girare per gli spazi del teatro, che sono già uno spettacolo anche senza tragedie. Cogliere alcune scene, dettagli, scorci, era il momento ideale, prima di immergerci nello spettacolo.

Ecco allora una breve rassegna di foto di questa serata, al Teatro Greco di Siracusa, per le Baccanti

Fine pena…quando?

Fine pena…quando?

Forse non riflettiamo abbastanza sul fatto che alcune conquiste morali e sociali hanno bisogno di persone e tempo per crescere e raggiungere visibilità. Ci pensavo quando spiegavo il buon Cesare Beccaria (il nonno di Manzoni, per intenderci) e il suo fondamentale libro “Dei delitti e delle pene”, che nell’epoca dei Lumi ha posto con forza il dibattito sulla pena di morte. Ancora oggi ci sono numerosi paesi e località dove questo principio non ha ancora fatto breccia e la legge continua ad arrogarsi il diritto di spegnere una vita con la presunzione di fare una cosa giusta.

Oggi il dibattito si è spostato sul tema dell’ergastolo, sul paradosso di una legge che vorrebbe offrire con la reclusione una occasione di emendamento e che lo preclude, di fatto, impedendo un recupero della persona, seppellendolo in pratica prima della sua morte in un carcere.

E’ un tema, quello del carcere, che conosco sinceramente troppo poco per azzardare ipotesi, ma la lettura di questo interessante libro di Fassone apporta al dibattito un contributo personale e argomenti sensati molto particolari.

Scritto con uno stile lineare e scorrevole, mai sciatto e con tratti narrativi davvero felici e con alcune felici invasioni di campo nell’ambito della poesia, il testo racconta una storia che sembrerebbe inventata, nella sua paradigmatica coerenza. L’autore è un giudice e nel corso di un maxiprocesso, svoltosi a Torino negli anni ’80, mette in ginocchio un feroce giro di mafia catanese. A uno degli imputati, killer spietato e giovanissimo, viene comminata una serie di ergastoli, proprio per evitare le derive di una giurisprudenza che a volte rischia di disfare con la mano destra quello che la sinistra ha tessuto con fatica.

Ed è proprio tra questo ergastolano e il giudice che inizia una incredibile corrispondenza epistolare, che durerà per oltre 27 anni, fino al momento del tragico epilogo.

In questo che sembra quasi configurarsi come un romanzo di ri-formazione, avvertiamo tutto il crescendo di una relazione asimmetrica tra il giovane che poco alla volta si affida, quasi, alle parole sagge del giudice, che tenta in qualche modo di contribuire ad un recupero della persona alla quale ha spento, proprio con l’ergastolo, ogni possibilità di redenzione. Leggiamo quindi il lento procedere delle cose, i continui spostamenti di carcere, le regole ferree e le enormi difficoltà per recuperare una dimensione umana, la possibilità di un piccolo lavoro, di piccoli spazi di umanità, il sogno minuscolo di un amore che potrebbe accompagnare la vita ma che poi naufraga contro le barriere di un tempo che non arriverà mai…

Poco alla volta cambia il modo di vedere le cose di questo ergastolano, ma cambia anche la percezione dello strumento penale da parte del giudice, che poi diventa magistrato e senatore. E’ una lenta ma profonda riflessione sul senso del carcere, sulla possibilità di offrire un cammino di recupero, sulla assurda tenacia di alcune leggi che impediscono, di fatto, quello che persino la Costituzione addita come funzione necessaria del carcere, che non è la sola difesa e tutela dei cittadini, ma anche la possibilità di “emendare” il colpevole.

E’ un contributo prezioso al dibattito sul “fine pena mai”, sul senso che possa avere oggi, sulla capacità di una società a diventare più “giusta” (perché nessuna società nasce perfetta e le “perfezioni” di ieri non è detto che valgano ancora per domani).

Purtroppo l’epilogo è triste, il carcerato finirà col togliersi la vita e questa ferita colpisce doppiamente il magistrato, come uomo ma anche come rappresentante di quella “giustizia” che immaginiamo sempre come qualcosa di astratto e imponderabile. Un testo che trovo molto per far crescere le persone e ragionare su un tema che pur non toccandoci quasi mai direttamente, coinvolge davvero tante vite umane (in Italia sono oltre 1500 i condannati all’ergastolo).

Dalla follia alla salvezza

Dalla follia alla salvezza

Gli intrecci della vita sono a volte sorprendenti. Ricordo con sprazzi di suggestiva lucidità un periodo di tanti anni fa; ero all’ultimo anno delle magistrali, nei pressi di Velletri. Avevamo iniziato con il nostro gruppo di post-noviziato una esperienza particolare; ogni sabato del mese ci recavamo ad Ariccia, presso una immensa casa dei Fatebenefratelli. A quei tempi i manicomi esistevano ancora, eccome. In quel grande ospedale una zona era interamente riservata ai malati di mente. Si entrava e ci si ritrovava catapultati in un’altra dimensione.

Vedevi gente tranquilla con la valigia in m ano, attendere serenamente, accanto al lampione, il passaggio del bus. Ci dicevano che faceva così, ogni giorno, si preparava al mattino e poi rientrava la sera. Da anni. Gente coi vestiti sbrindellati, o anche senza, girare come attori che provano il copione, declamando versi o investendo di improperi le parolacce. E c’era anche il semplice scroccone che ci aspettava per chiederci una sigaretta, un momento di ascolto. Poi c’erano i reparti e lì capivi che alcuni malati di mente forse erano tutt’altro. Ce n’era qualcuno bloccato a letto, senza il dono della parola. Ma aveva il sorriso e sembrava già un parlare. Naturalmente noi eravamo a contatto con quelli “semplici”, i buoni, come direbbe Mencarelli.

Con queste premesse, leggere questa storia mi ha fatto andare rapidamente con la mente e il cuore a quel periodo, vissuto praticamente nelle stesse zone raccontate dall’autore, con pochi anni di differenza. Questo collegamento aiuta certamente a rileggere in filigrana non solo la sua storia, ma anche la mia esperienza… Per non parlare della suggestione che i Castelli Romani esercitano anche solo per i profumi e i luoghi, ormai sedimentati nella memoria.

E tanto per cominciare, è strano leggere un libro in cui il protagonista abbia il nome dell’autore, come se una sorta di identificazione si potesse cogliere. La storia è molto semplice e ben condotta. Un giovane ventenne, con piccoli precedenti, uso abituale di sostanze, una psiche fragile, dà di matto e viene colto da un raptus violento, in casa sua. Il padre rischia grosso, investito da questa aggressività. Viene applicato d’ufficio un TSO, un trattamento ospedaliero obbligatorio. Insomma, lo mandano in ospedale per una settimana, sperando che nel frattempo la buriana si calmi.

Siamo nel 1996, l’anno dei mondiali di Arrigo Sacchi, un evento che scorre e affiora ogni tanto nel racconto. Lo spaccato della società italiana della fine del secolo scorso è ben nitido, coi suoi rituali, le sue abitudini e i suoi alti e bassi. Nel libro si racconta in modo meticoloso e ordinato questa settimana, attraverso la voce narrante di Daniele. Il piccolo mondo dei pazienti del suo reparto viene scandagliato in profondità e con tenerezza inusuale. Ogni malato che Daniele incontro diventa prima un nome e poi, poco a poco, una persona; in alcuni casi si trasforma persino in amico. E’ un microcosmo vissuto dall’interno con sofferta compassione, perché l’autore condivide la tragica scintilla di questa follia che a volte emerge, come una sorgente carsica, e si impadronisce con violenza della persona, come nel concitato finale, dove al posto di una calma apparente per la conclusione del periodo di cura, tutto sommato normale, viene travolta dallo sfogo violento di una persona che si vede negato un semplice gesto di umanità.

Tanti i temi che affiorano: dalla condizione difficile dei malati di mente, al personale che lo accudisce, dalla considerazione della malattia mentale (basta la chimica, no, serve la relazione…anche i dottori incontrati nella settimana sono divisi su queste sponde metodologiche).

Nel frattempo il protagonista ha tempo per rivedere i suoi rapporti familiari, la sua storia, i suoi problemi, il rapporto con la madre e il padre. Riflette persino sulle conseguenze di bravate adolescenziali che si ritengono spesso senza nessuna importanza, e invece si troverà a diretto contatto con una persona che porterà per sempre le ferite di queste azioni, dimenticate dagli stessi attori.

Il campionario di pazienti che Daniele racconta sono persone vive e vivide, ciascuna con il suo dramma e le sue paure. Nel riparto si scopre così una sorta di cameratismo insperato, una rivincita dell’umanità nei confronti della malattia e dell’assurdità di certi trattamenti. Una ricerca di senso e di salvezza che nobilita le persone, nonostante l’ambiente e il destino che li ha relegati ai margini della vita e della società.

Molto particolare il linguaggio: un italiano scorrevole, accessibile e forbito per tutte le parti narrative e poi un romanaccio sghembo e spesso slabbrato per i tanti dialoghi del testo. Sarà certamente un libro difficile da tradurre! Fa capolino anche un’altra delle passioni dell’autore: la poesia, che sembra una delle caratteristiche del protagonista; per alcuni giorni il racconto ruota intorno alla scrittura di una poesia, che poi verrà letta prima ai compagni di camera e non verrà invece declamata al dottore che l’aveva espressamente chiesta, ma reo di aver confuso platealmente il suo paziente. Spesso i malati sono ridotti a numero, compilation di farmaci da assumere, a fascicoli da compilare e l’errore di lettura sembra una semplice svista; una tragedia, invece, per il soggetto.

Libro interessante, che ricorda la condizione dei reparti psichiatrici fino a non molti decenni fa e obbliga a mantenere viva l’attenzione per il disagio mentale di tante persone, i “fragili” della nostra società.