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Due vite, anzi, 3

Due vite, anzi, 3

Una vota tanto sono in sintonia con gli eventi e con la grancassa mediatica. Ho appena concluso la lettura del volumetto “Due vite”, di Emanuele Trevi. Ho realizzato quando ero già a metà testo che era il vincitore dello Strega 2021, poco danno. Il fatto è che probabilmente è l’unico libro di carta che ho letto per intero in questo anno (o forse negli ultimi 3-4 facciamo anche 5 anni).

Ero a casa e saccheggiando gli scaffali di Massimo, mio fratello, ho indugiato un po’ su questo libro. Essenzialmente perché è davvero piccolo e quindi breve. In pochi minuti Massimo mi ha selezionato anche un paio di altri titoli, a cominciare da quello di Pia Pera, l’Orto di un perdigiorno, giusto per contornare la lettura.

Ma a casa ho appena iniziato a spulciare le pagine, ho terminato il testo una volta rientrato qui in Sicilia.

Strano che a vincere un premio così strombazzato sia un libriccino così fuori dagli schemi. Non è un romanzo, o una biografia (nemmeno doppia!), o un piccolo saggio, tantomeno un testo di poesie… Narra semplicemente l’incontro dell’autore con 2 differenti personalità: Rocco Carbone e Pia Pera. Del primo non ho evidenziato e non conservo praticamente nulla. Forse mi è sembrato antipatico e scostante come un po’ traspare dalle pagine di Trevi. Della seconda invece, sicuramente per la consonanza sul giardino, è rimasto il segno.

Ma come ogni libro che parla di qualcosa, il testo ci parla anche molto del suo autore, del suo approccio alla vita, delle sue conoscenze, delle sue vaste frequentazioni culturali, della sua curiosità.

Forse non è un caso che ancora oggi, sulla pagina del Post, questo intrigante influencer digitale dei nostri tempi, campeggia da tempo questa sua citazione: «Non siamo nati per diventare saggi, ma per resistere, scampare, rubare un po’ di piacere a un mondo che non è stato fatto per noi». Sicuramente opinabile e di parte, ma suggestiva. A questo libro il Post dedica anche, com’era prevedibile, un rapidissimo articolo, scarno e senza spoiler sul contenuto. Se proprio uno volesse qualche rapida informazione sul contenuto, sul web si trova di tutto.

Dicevamo del giardino: non conoscevo minimamente Pia Pera ed è stata proprio una scoperta. E’ bello quando un libro cioè un autore, insomma, una persona, fa dono agli altri dei percorsi culturali realizzati, delle scoperte umane incontrate sul proprio percorso. Trasmettere qualcosa di bello e di significativo allarga il raggio d’azione del bello, del vero. Non è poca cosa oggi, dove la diffusione è riservata quasi solo a news più o meno catastrofiche, segnali di timore, fake e tormenti vari. Nella vita e per la vita abbiamo bisogno di contenuti veri, che portino ossigieo e speranza. Anche semplicemente speranza laica, che è comunque intessuta delle stesse dinamiche della vita. Man mano che ci si addentra nei percorsi degli anni, che si accrescono le esperienze, viene a diluirsi sempre di più quel confine tra sacro e profano, per lasciar posto alle cose che contano. E nel sacro possono contare solo le cose che nel profano hanno futuro.

E’ stata così l’occasione per prendere in mano il testo di Pia Pera, dove lei ci racconta il suo rapporto con il giardino, le piante, l’orto, la verdura, i fiori, i semi e l’umile lavoro del giardiniere. Che è poi il primo mestiere che l’uomo ha ricevuto in esclusiva come custode dell’Eden. Mi sembra una buona indicazione (e nel mio caso la ritrovo persino siglata nel nome).

Insomma, una lettura piacevole, densa, ma piena di senso, uno stile scorrevole e gradevole impatto, colmo di piccole sorprese e di complicità.

Ora ho già promesso di passare il libro a Nina, lei sì che è una divoratrice di carta; vediamo come lo trova.

Bellini, questi luoghi di Catania ;-)

Bellini, questi luoghi di Catania ;-)

Sto per iniziare il mio terzo anno qui in Sicilia, da Siracusa a Catania ci sono meno di 60 km, eppure, a parte le necessarie toccate e fughe presso l’aeroporto, non ero mai riuscito a ritagliarmi un po’ di tempo per visitare questa città. A dire il vero mi ero persino fatto consigliare da Mariagiovanna su un possibile itinerario di visita (e meno male che lo avevo scritto, perché pensavamo di andarci come comunità), ma tra una zona rossa e una a pois, le cose non sono andate esattamente nel migliore dei modi.

C’è voluta proprio l’occasione del fratello vacanziero per dedicare finalmente una giornata a Catania.

E ne valeva decisamente la pena, perché ho scoperto come la realtà siciliana non sia semplicemente identificabile con le belle cittadine barocche, un po’ trasandate e sonnacchiose come Modica, Ragusa e Siracusa….

In questi giorni Google Maps doveva avere le sue cose, perché ogni 3×2 esordiva con un “strada sconosciuta” oppure un enigmatico “fare inversione e tornare indietro”, anche se la strada era di quelle importanti e ben segnalata. Comunque, mettendone insieme un paio (chissà perché nella stessa macchina due versione di GMaps sembrano avere identità ed itinerari autonomi!) siamo finalmente arrivati alla zona in cui volevamo parcheggiare: la Via di Sangiuliano. Avevo rispolverato le note messe da parte, senza dilungarmi troppo sui siti ad hoc (tipo: le dieci cose da vedere assolutamente a Catania… per questi link ci pensava Lida).

La nostra prima meta era la piazza del teatro Bellini; doveva essere anche la tappa giusta per una granita e la brioche col tuppo, ma siamo capitati male. L’unico bar aperto della piazza ne era incresciosamente sprovvisto. Allora giusto il tempo di uno sguardo al teatro. Mi sono messo d’impegno e ho percorso tutto il suo perimetro, restando un po’ perplesso per l’esagerazione dei murales, il senso di abbandono e di quasi degrado da cui era circondato l’intero edificio. Difficile convivere con officine, autoriparazioni, saracinesche chiuse da anni, manifesti alternativi, scritte fluo dalla dubbia interpretazione, ma così succede. In compenso almeno la facciata, che collega magnificamente gli edifici attigui, ha la sua maestosa imponenza.

Poi ci siamo diretti verso il cuore della città: la piazza sulla quale si affacciano il Duomo, il Comune e la splendida fontana dell’Amenano. A dire il vero la prima tappa è stata presso il caffè Prestipino. Questa volta non siamo rimasti delusi, anzi, ammirando gli scaffali che grondavano di dolciumi, cassate, cannoli e altri veleni per diabetici, le nostre convinzioni sulla scelta del da scegliere traballavano visibilmente. Poco male, ci siamo rifocillati e poi abbiamo iniziato a contemplare il resto. La fontana dava veramente l’idea di un velo d’acqua impalpabile e fresco, il “lenzuolo”, come viene chiamato dai ccatanesi e quello spazio bianco e tremolante aiutava in qualche modo a sopportare il sole torrido. Poi il duomo, spettacolare e immenso, che richiama almeno per le dimensioni le basiliche di Roma (ormai io mi sono un po’ dimensionato sulle ridotte misure siracusane e il nostro duomo, al confronto, sembra una parrocchietta). E non per niente il primo uomo illustre sepolto in questa chiesa, lo incontri appena entri, è proprio il famoso compositore Bellini. Che dire poi dell’elefante in pietra nera che svetta nel centro della piazza? Dal 1239 è il simbolo della città e riporta indietro nel tempo, viene da pensare a Pirro o Annibale (l’origine della statua sembra infatti legata al periodo cartaginese), ma verrebbe anche da sottolineare il fatto che un tempo gli elefanti, quelli nani, erano di casa in Sicilia, per lo meno, nel …pleistocene. Anche il vicino palazzo del Comune (non per niente si chiama Palazzo degli Elefanti) riserva qualche sorpresa; nel suo androne d’ingresso, vi sono infatti delle splendide carrozze del 1700, una delle quali viene utilizzata ancor oggi, durante i festeggiamenti per S.Agata.

Ma dopo questa abbuffata storico-religiosa, ci siamo deliberatamente confusi nella Pescheria, cioè nel mercato popolare che si snoda nelle vie, nelle piazze e nei sottovarchi a sud della piazza. Un miscuglio di odori e colori, pesce e frutta, verdure e primizie, noci dell’Etna grandi come mele, fichi d’india già belli e pronti e profumo d’arancini (o dovrei dire arancine? hic est busillis); quando ci siamo seduti ad uno dei tanti street food self-service della zona, eravamo già belli che appagati in tutti i sensi (per lo meno, quelli che fanno parte del club dei 5).

Poi una scappata fino al castello Ursino, altro segnaposto di Federico II, tutto circondato come si ritrova oggi dalla lava. Riesce difficile immaginare che all’inizio era proprio a pochi passi dal mare. Meriterà una visita più calma, almeno per vedere il museo all’interno.

E per finire abbiamo dovuto fare una concessione a Lida, e inoltrarci nella “vasca” catanese di Via Etnea. Così l’itinerario era un po’ in versione step&go, con frequenti pause per contemplare le vetrine, ascoltare le dissertazioni dei commessi di Siculamente e cose del genere, superando di slancio le rovine dell’anfiteatro romano (si fatica davvero a coglierne l’imponenza, visto che doveva essere secondo solo al Colosseo di Roma); siamo giunti fino ai giardini di villa Bellini e lì ci siamo arenati un po’, prima di riprendere la strada verso l’aeroporto. Per Lida e Paolo il tour siciliano era ormai alla fine. Ma il bottino di bellezza, colori e sapori che avevano ormai raccolto, non aveva più bisogno di valigie per essere contenuto…

Ecco un album fotografico delle cose belle viste a Catania

Pedalare sotto questo sole…

Pedalare sotto questo sole…

Anni fa Baccini, con il suo tormentone estivo, ricordava che “Sotto questo sole è bello pedalare…” e tutto il resto. bene, tutto questo resto, insieme al bello, ovviamente, l’ho messo nel bagaglio delle esperienze compiute in questi giorni…

Sabato 21, insieme a mio fratello Paolo, ci siamo lanciati nell’impresa di farci qualche chilometro sull’antica via del sale, in groppa alle alpi liguri che fanno da cornice alla nostra terra. L’idea di una sgroppata in montagna riaffiora ogni estate. Lo scorso anno ero riuscito a fare una scappata ad Entracque, verso il rifugio Genova. Quest’anno le cose sono un po’ diverse e mi sarei accontentato di una decina di giorni casalinghi, insieme a mamma. Ma qualche eccezione si può ben fare. Così avevamo cominciato a valutare questa possibilità.

Per approfondire l’itinerario ci eravamo un po’ documentati sui vari siti locali, che ormai presentano con una buona documentazione gli itinerari possibili nell’entroterra: a cominciare dalle brochure disponibili in rete e persino ad un corposo documento con informazioni sui vari possibili itinerari, sempre rintracciato sul sito dell’Alta Via del Sale.

Allora, sabato mattina, all’alba (si dice sempre così ma erano ormai le 7) ci siamo diretti verso Monesi. In macchina fino a Imperia, poi verso Pieve di Teco e quindi, inerpicandoci su stradine non sempre perfette (le recenti alluvioni hanno lasciato il segno e Monesi è stata per mesi praticamente isolata dal resto del mondo!) eccoci arrivati al punto di noleggio della Mela verde. Naturalmente l’idea era quella di utilizzare delle e-bike e siccome era la prima volta che le usavamo in montagna, non sapevamo ancora bene a cosa andavamo incontro.

Senza tanti preamboli e seguendo le semplici indicazioni ricevute al noleggio da Marco, abbiamo subito iniziato a pedalare, apprezzando il valido contributo della pedalata assistita. Le bici erano della Fantic (io ricordavo solo che anni fa era una apprezzata marca di moto da trial) e il funzionamento molto intuitivo. Le batterie erano piene e la salita era tanta. La meta che volevamo raggiungere era il Rifugio don Barbera (un nome evocativo, ti fa pensare ad un gemellaggio con don Perignon o altri riferimenti da cantina…in montagna non stona di certo).

Il primo tratto di strada (i primi 5 km), fino al bivio per il Saccarello, era molto intenso, tutto in salita ma con un fondo stradale accettabile, alcuni tratti asfaltati, altri in cemento, pochi tratti di sterrato. Ma arrivati al bivio la musica cambia. Appena salutate le caprette all’alpeggio abbiamo preso il (duro) contatto con la strada bianca, la sua distesa di pietre e ciottoli, le buche e tutto quello che fa di una strada di montagna il “bello” della montagna. Ma intanto si pedala. Il fondoschiena comincia a sognare cuscini e soffici supporti, ma ad ogni scossone viene riportato crudamente alla dura realtà.

Tanti gli escursionisti, le moto, le altre bici, ma anche le macchine, le jeep… a volte la polvere si poteva tagliare a fette e l’aria di montagna sembrava un po’ deturpata. Per fortuna in poco tempo la situazione tornava limpida, il panorama riprendeva il sopravvento e l’occhio, soddisfatto della sua parte, si rappacificava.

Forse un’idea del percorso può rendere meglio l’idea del nostro tour. Siamo partiti da quota 1370 e siamo arrivati fino a 2240, con un totale di 50,4 km: per essere una prima volta, niente male davvero.

Dopo una pedalata di oltre 2 ore siamo così arrivati al tratto finale, discesa bruttina e piena di sassi, ma pur sempre discesa (e uno già ripensa al ritorno!); giunti al rifugio don Barbera, bello affollato di persone, abbiamo messo le bici sottocarica e ci siamo rifocillati un po’. E subito dopo, un po’ di sgranchimento di gambe nei dintorni, a gustare il panorama.

Quando decidiamo si ripartire scopro, dopo svariati minuti, che il tappo della ricarica non era stato chiuso bene e quindi la bici non voleva ripartire. Così, dopo averla spinta a mano per il primo tratto di salita, dal rifugio fino alla strada, rieccomi pronto per la partenza. Avevo un piccolo ritardo su Paolo, un paio di minuti, e quindi speravo di riprenderlo abbastanza presto, immaginando che avesse già iniziato il ritorno. Lo cerco lungo la strada e così com’ero, con gli occhiali da sole, mi sembra di vederlo ormai più avanti, con la sua maglia blu. Ma sono in tanti a pedalare in questo momento e non è certo facile superare il gruppone. Così penso di accelerare un po’ per riprenderlo. Il caso ha voluto invece che Paolo mi stesse aspettando proprio lì vicino e forse stava contemplando il panorama dall’altro versante. Così nell’illusione di raggiungerlo e lui nell’attesa di rivedermi… abbiamo ripreso la strada del ritorno separatamente. Ma poco danno, non c’erano molte possibili deviazioni… E siccome i 2 telefoni li avevo io nello zainetto, difficile sentirsi anche perché di campo telefonico, a quella quota, sopra i 2000, ce n’era proprio poco.

Il ritorno, o meglio, la discesa, tolti alcuni pezzi in salita, è stato un po’ massacrante. Salti, ciottoli, pietre, polvere (tanta polvere, con tutte le moto che salivano a quell’ora…) tutto documentato con pignola precisione dal mio fondoschiena che ha rilevato ogni buca. Ma vuoi mettere il panorama, gli scorci che si aprivano dopo una curva, il percorso in mezzo ai larici, il profumo di ginepro? Davvero un bel ritorno, nonostante tutto.

A forza di pedalare sono così ritornato al punto di partenza. Quando mi accorgo che Paolo non era ancora rientrato, nel dubbio sul cosa fare, riprendo la bici e risalgo un po’, giusto per attenderlo in un luogo più tranquillo e riposante. Infatti dopo non molto eccolo arrivare, con la sua maglietta blu 😉 e ricompattiamo il gruppo. Ormai il percorso è compiuto.

Sulla strada del ritorno una piccola deviazione verso Lucinasco, per ammirare il laghetto e la splendida chiesa di s.Stefano, del XV sec. Il panorama, come dice mio fratello Paolo, fa pensare più a una collina e un borgo toscano che al nostro entroterra ligure, se non fosse che da tutte le parti siamo circondati da olivi, olivi e olivi. E poi finalmente a casa, dove posso finalmente riconciliare le mie povere ossa su qualcosa di più morbido. Tanto lo so, il peggio arriverà domani 😉

E restano quindi le foto di questa giornata, comprese le aquile che volteggiavano fiere sopra di noi!

Album fotografico del bicitour
da Monesi al Rifugio Don Barbera

Povere diapositive…

Povere diapositive…

Correvano (e anche velocemente) gli anni 80. L’hobby della fotografia occupava uno spazio discreto…. Dopo le mie prime sperimentazioni di sviluppo e stampa in B&N il passo successivo si è indirizzato verso le diapositive. Facevo scuola e spesso i fotomontaggi (all’epoca era quasi il massimo della multimedialità) mi sembravano una soluzione percorribile e stuzzicante.

E naturalmente l’idea era quella di lavorare per produrre qualcosa di duraturo, da riutilizzare lungo gli anni. Le diapositive mi sembravano lo strumento adatto. Tutta plastica, coloranti a prova del tempo (almeno sul breve periodo) e così ho iniziato a prediligere questo metodo.

Durante l’estate, poi, quando c’erano i campi estivi ad Entracque o Lavarone, era uno degli appuntamenti fissi. Facevo foto al gruppo, durante le escursioni, nei vari momenti delle attività e poi, calcolando con pignoleria i tempi, si mandava a sviluppare il rullino nel fotolaboratorio più vicino (Cuneo o Trento) e spesso mi riusciva di proiettare le foto prima della partenza dei ragazzi.

Immaginatevi quindi la scena: nel cortile ormai buio, con un mega lenzuolo steso alla belle e meglio come schermo, tra due alberi, dopo aver sistemato cavi, cavalletto e proiettore, tutti i ragazzi in semicerchio per rivivere i momenti clou della settimana. Persino le diapositive sballate e fuori fuoco potevano servire; col pennarello ci scrivevi sopra il titolo della serata, la data del campo, qualche commento… In effetti era già possibile l’editing manuale (pennarelli indelebili con punta superfine, ovviamente). Durante lo show si sprecavano le esclamazioni, gli “Ohhh…!” di partecipazione e le pernacchie per qualche eventuale fuori scena… o foto simpatica.

Poi gli anni passano, le diapositive restano chiuse nelle loro scatole, o nei pratici (?) fogli in plastica che ne consentono una visione più rapida. Dopo gli anni 90 iniziano a farsi largo le macchine digitali. Ricordo ancora una delle prime che ho utilizzato, una Fuji con sensore da ben 3 Megapixel. E si apriva il dibattito se il digitale avrebbe mai soppiantato le foto e le diapositive analogiche, con una risoluzione decisamente superiore e per quei tempi irraggiungibile. Ma il digitale ha iniziato a galoppare e i risultati li abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. Cellulare da 54 Mpx, o con tripla fotocamera, ecc. ecc. Il sorpasso è ormai consegnato alla pratica quotidiana.

E dove sono finite le vecchie diapositive? Da un trasloco all’altro ho cominciato a sistemare le vecchie diapositive in qualche scatola di scarpe più robusta, in raccoglitori più pratici. Per poi lasciarli in qualche scaffale. Così le ho persino dimenticate in un sottoscala piuttosto umido (a Giugliano) e quando mi hanno detto che le avevano ritrovate ho sperato di poterne fare ancora qualcosa.

Gli scanner per diapositive sono ormai strumenti abbordabili, anche se per ottenere una qualche resa professionale è necessario rivolgersi a prodotti di classe superiore. Naturalmente tutto dipende dalla qualità delle diapositive. E quando mi sono ritrovato tra le mani le tante scatolette, nutrivo un bel po’ di aspettative: finalmente potrò recuperare le foto dei campi estivi di 30-40 anni fa! E invece… Dopo averle aperte e passate in controluce, la delusione cocente. Molte diapositive erano solo più un ammasso di pigmenti colorati, macchie colorate o suggestioni buone per Andy Warhol… Sicuramente l’umidità e il calore hanno compiuto il disastro. Solo qualche scatoletta chiusa meglio ha fornito qualche resto leggibile.

Ma ogni scarrafone è bello a mamma soia e quindi, ne ho recuperate un po’, anche se la qualità è decisamente bassa; in molte si fatica a riconoscere le persone, in altre la fantasia deve giocare un ruolo davvero ingombante.

Ho recuperato alcuni vecchi campi scout, qualche immagine della mia prima classe come insegnante di scuola elementare, qualche incontro marista a Las Avellanas (1986) e altri scampoli memorabili.

Ma in molti casi la qualità è così bassa che serve molto coraggio per conservare le immagini.
Giusto per un confronto, ecco alcune diapositive del 1981, eravamo a Trevi nel Lazio, per il nostro campo con i lupetti del SLM (io ero il Baloo ufficiale del gruppo), come Akela c’era Stefano Strano, ma tranne qualche immagine i volti sono proprio illeggibili. Persino quello di Laura Lega, che magari meritava qualcosa di più (in quegli anni era stata eletta Miss Cinema del Lazio, attualmente è il capo dipartimento dei Vigili del Fuoco!); ho rintracciato persino un antesignano dei selfie, un mio autoscatto nella sala dei bottoni del campo.

Speriamo che giunti a questo stato di “conservazione”, avendo passato il tutto in digitale, non succedano altri cataclismi, ma basterebbe riflettere sui recenti attacchi informatici, con ransomware selvaggio che cripta tutti i dati del tuo hard-disk, per capire che i disastri sono sempre più frequenti dei salti evolutivi!

E finito il lavoro, senza troppi rimpianti, tutto il materiale è stato eliminato definitivamente. Così al prossimo trasloco ci saranno meno anticaglie inutili da dover sistemare. Ma sono piccole lezioni utili, per ridimensionare le cose, la loro durata e persino la loro utilità.

Il mito di Aretusa…

Il mito di Aretusa…

Siracusa ne ha i cartelli pieni. Dopo mesi di lockdown e cartellonistica in letargo (ho visto cartelloni del 2019 sbrindellarsi lentamente al sole) cominciano a spuntare le nuove proposte.

Quella dello spettacolo sul mito di Aretusa è una delle più visibili, in questo luglio che ormai volge al termine.

Si tratta di uno spettacolo narrato in una location suggestiva. La grotta dei Cordari e l’Orecchio di Dioniso, entrambe nel parco Neapolis. Erano anni che la grotta dei Cordari era chiusa al pubblico e i recenti lavori di sistemazione hanno reso fruibile questo scorcio davvero imponente del parco.

Dopo aver visto alcune tragedie nel teatro greco, grondanti di effetti speciali, di attori e di pubblico, volevamo anche gustare questo spettacolo. Ci siamo andati con tutta la nostra comunità marista una sera di luglio. Luna quasi piena e serata tiepidissima, delizioso anche solo muoversi a piedi in questo panorama così particolare.

Avevamo scelto lo spettacolo delle 9 perché la locandina accennava ai giochi di luce e alla animazioni 3D, volevamo gustarle al pieno della loro suggestione. Ed è stato un bene… Il nostro gruppo (lo spettacolo coinvolge una ventina di persone alla volta), dopo un po’ di attesa, è stato accompagnato all’inizio del percorso e poco dopo, anzi, dopo esserci messi il casco (non si sa mai, qualche scheggia di pietra che si stacca da 20-30 m. di altezza può fare un brutto effetto!), siamo entrati nella zona coperta di questa immensa cava.

Qui ci attendeva un satiro, in luminoso contrasto col buio che ormai regnava ovunque. Il suo primo monologo ha introdotto nel fatato regno del mito, presentando e descrivendo i vari personaggi coinvolti nel mito.

Ma la parte più interessante e ad effetto si è svolta tutta nella grotta dei Cordari. Le gradi pareti e il soffitto erano la sede su cui venivano proiettati i vari giochi di luce e le animazioni. Un effetto grandioso e spettacolare. Dai rami che si trasformano in cespugli, fioriscono, crescono, si intrecciano… alle acque del mare che mostrano tutte le sfumature della tempesta, alle foreste che emergono dalle nebbie e si mostrano maestose. Uno scenario davvero ben realizzato. Su questo sfondo la narrazione e la visualizzazione della ninfa Aretusa (nella locandina si accennava ad una danzatrice, ma… di movimento se ne vedeva ben poco). L’audio era ben congegnato ed efficace.

Infine si procede l’itinerario nell’orecchio di Dioniso e anche qui un protagonista, il filosofo/poeta Filosseno di Citera ci racconta con impeto e sofferenza le sue vicissitudini e il suo dramma sotto il tiranno di Siracusa.

Rappresentazione efficace, suggestiva e interessante. Sicuramente il prezzo piuttosto elevato (25 €, se pensi che le tragedie al Teatro Greco per i residenti costano 15…) per uno spettacolo che nel suo insieme dura poco più di mezz’ora, non invita certamente grandi folle. La recitazione è tutta dal vero, niente playback; luci e proiezioni sono di grande livello e sfruttano un ambiente davvero unico.

Serata speciale, mito ben narrato. Forse a qualcuno piacerebbe qualche digressione o attualizzazione su una storia che, in fin dei conti, altro non è che il racconto di una violenza, di uno stupro efferato, quasi una giustificazione di riti e pratiche fin troppo frequenti nell’antichità, tali da evocare una loro valorizzazione sociale e giustificazione morale. Su questo si poteva certamente aggiungere qualcosa…

Era buio e con il mio cellulare le foto in notturna sono deludenti, ma qualche foto mi è scappata 🙂