Sfogliato da
Categoria: personal-gb

Davvero grande, questo amore

Davvero grande, questo amore

Tra un po’ dovrò riprenderlo, il suo famoso “Va dove ti porta il cuore”, perché dal tempo della prima lettura (in pieno secolo scorso), di vocali ne sono passate a scorribanda tra le consonanti …
Ma intanto resto gradevolmente sorpreso dai testi che puntualmente, ad ogni giro di boa importante, la Tamaro produce, senza strepito, con calma e decisione.

Così mi è capitato tra le mani questo suo ultimo romanzo (Una grande storia d’amore è del 2020, persino la pandemia vi fa capolino); dopo aver letto anche altri suoi testi, come quello dedicato al mondo della scuola, nel quale rivendica con fermezza alcuni suoi punti insindacabili (e opinabili, a parer mio) per avviare un recupero culturale serio, mi sembrava giunto il tempo di riprendere il filone narrativo. E non ne sono rimasto deluso.

La storia questa volta si basa su una sorta di inversione dei ruoli. E’ una storia d’amore tra due persone, ma l’autrice si cala fortemente nei panni dell’uomo, il “capitano”, in questo caso. E certe simbologie rivelano chiaramente alcune convinzioni. La trama si dipana lungo i nostri anni, partendo dai lontani (e forse non così mitici) anni 70-80. Per chi quegli anni li ha vissuti e li conosce sono tanti i rimandi, discreti e in filigrana, che ne definiscono i contorni, dai vestiti agli slogan, dal cibo alle abitudini, tutti elementi ben dosati e mai didascalici. La relazione che nasce tra i due protagonisti, la giovane Edith e Andrea, è marcata da numerose tappe, viaggi, traghetti, università, oriente… le prime delle quali sembrano fatte apposta per rendere difficile e poco scontata questa storia.

Il carattere dei personaggi sembra così antitetico e basato su presupposti quasi agli antipodi l’uno dell’altra che proprio solo il caso (nel finale del libro però farà capolino una speranza, anzi, una provvidenza che la dice lunga su chi tesse la trama dei giorni) sembra giustificarne la possibilità.

E’ una storia che inizialmente si basa sulle attese, sui tempi lunghi, sulle pause di riflessione e sui tentativi di imbastire la propria vita su altre basi, ma poi, lentamente, il percorso converge e i nostri due finiscono per riunirsi. Ma dopo questa sistole ecco prendere fiato la diastole delle persone, gli incidenti, le mancanze imprevedibili, le assenze. Sarà la morte di una nonna, colta dall’infarto su un bus giunto a fine corsa a minare l’equilibrio che la coppia aveva raggiunto, nonostante la presenza di una figlia proveniente da un altro percorso.

E dopo la vicenda di una nuova nascita, che purtroppo verrà segnata dalla tragedia di una fine prematura dopo pochi mesi, l’equilibrio raggiunto si sgretola. Da questo punto le piste divergono nuovamente, la coppia si rinsalda, ma la figlia si perde, letteralmente ed emotivamente. Il resto del libro si muove in vista di un possibile ritorno nel porto familiare, impresa difficile che infatti si compirà solo a frammenti.

Non è un giallo, ma i colpi di scena, le invenzioni, pacate ma illuminanti, sono di casa e mostrano la capacità dell’autrice nel prendere per mano il lettore e accompagnarlo nella riflessione su tanti temi che apparentemente sembrano un coacervo di elementi poco unitari. Ben dosato anche l’altro grande amore della Tamaro, le lettere; nel corpo del testo ne compaiono alcune, scritte dalla protagonista e necessarie nell’economia del testo per chiarire e completare il quadro. Dall’altalena alla cura delle api, dalla cultura cinese alle esperienze giovanili, dal ’68 maoista al recupero della fede attraverso itinerari anche semplicemente di sentiero. Il racconto si dipana ampiamente toccando temi e situazioni che fanno parte del nostro oggi, senza enfasi e con molta serenità. Ma anche fermezza: le idee che traspaiono sulla nostra modernità sono riprese spesso in modo apertamente critico, dalla inarrestabile avanzata dei cellulari al mondo della rete, dal dramma delle droghe sintetiche alla maternità desiderata e spesso difficile, in tutte le situazioni affiora poi la difficoltà delle relazioni tra genitori e figli, elemento quasi assiomatico nei testi della Tamaro.

Iniziato un po’ per curiosità e terminato quanto prima, per la scorrevolezza del testo, la semplicità letteraria (mai banale) e per l’aderenza a questa nostra vita, non sempre facile. E giunto all’ultima pagina veniva quasi voglia di sfogliare ancora il tablet per vedere cosa sarebbe successo dopo…perché il finale sembra solo un gradino verso un nuovo inizio.

Storie coraggiose

Storie coraggiose

Una sorta di doveroso recupero, il mio, quasi un gesto per equilibrare culturalmente lo spazio che abitualmente mi trovo a decretare al mondo maschile. Ogni tanto recuperare l’altro polmone, l’altro sguardo, il femminile, non può che rendere più ricca l’esperienza e la conoscenza. Sarà anche per questo che mi sono fermato prima per la curiosità, poi per i contenuti e infine per scelta nel leggere questo libro. E poi, una volta iniziata la lettura, è stato giocoforza terminarla in giornata; si lascia leggere con accanimento. Buon segno.

Il testo di Silvia Ferreri ha un titolo apparentemente dimesso, quasi innocuo: Le cose giuste. Un messaggio implicito per definire il contenuto delle vicende narrate, qualcosa di necessario, esemplare, necessario: il giusto.

Un volumetto agile che riporta alcuni profili di donne che hanno sicuramente tanto da insegnare anche agli uomini. L’altra metà del cielo rivela forze, capacità e caratteristiche ben necessarie per la vita di tutti.

Il breve gruppetto di donne che vengono presentate toccano argomenti e temi molto diversi, tutti di attualità e di rilevanza forte. E sono tutte visioni dall’interno dell’esperienza femminile, con lo sguardo di donna, per raccontare cosa si vive e si prova in situazioni particolarmente drammatiche.

Mi sono ritrovato a percorrere strade di cui spesso ho intravisto il dipanarsi anche nella mia esperienza, come docente, come persona appassionata della legalità, come religioso… E le storie che vengono raccontate in modo molto diretto e concreto non fanno sconti a nessuno.

Si va dalle difficoltà di una coppia che non potendo avere figli propri si imbarca nella difficile avventura della open adoption (che proprio non conoscevo) fino alle drammatiche vicende della mamma catechista che si vede crollare un mondo dove aveva riposto fiducia da sempre, quello della chiesa (e della chiesa milanese, che per tanti aspetti dovrebbe essere un punto di riferimento sapiente).

Altre storie riguardano il trattamento che una famiglia sottoposta al programma di protezione per difenderla dalla ‘ndrangheta, che porta al paradossale finale di un doppio nemico, da un lato la mafia ma dall’altro lo Stato che con le sue vischiose burocrazie non riesce a garantire un livello di vita tollerabile. Si parla anche di anoressia, con il difficile percorso di una madre e una figlia che affrontano questo incubo (e il mio ricordo molto concreto va alle situazioni che ho incontrato, di vera disperazione…).

Leggere e sentire le riflessioni da parte di madri, mogli, donne, è certamente un modo significativo per cogliere meglio queste situazioni e poter contare su testimonianze forti e dirette; un gesto di partecipazione che rende migliori e più consapevoli anche noi uomini.

Due vite, anzi, 3

Due vite, anzi, 3

Una vota tanto sono in sintonia con gli eventi e con la grancassa mediatica. Ho appena concluso la lettura del volumetto “Due vite”, di Emanuele Trevi. Ho realizzato quando ero già a metà testo che era il vincitore dello Strega 2021, poco danno. Il fatto è che probabilmente è l’unico libro di carta che ho letto per intero in questo anno (o forse negli ultimi 3-4 facciamo anche 5 anni).

Ero a casa e saccheggiando gli scaffali di Massimo, mio fratello, ho indugiato un po’ su questo libro. Essenzialmente perché è davvero piccolo e quindi breve. In pochi minuti Massimo mi ha selezionato anche un paio di altri titoli, a cominciare da quello di Pia Pera, l’Orto di un perdigiorno, giusto per contornare la lettura.

Ma a casa ho appena iniziato a spulciare le pagine, ho terminato il testo una volta rientrato qui in Sicilia.

Strano che a vincere un premio così strombazzato sia un libriccino così fuori dagli schemi. Non è un romanzo, o una biografia (nemmeno doppia!), o un piccolo saggio, tantomeno un testo di poesie… Narra semplicemente l’incontro dell’autore con 2 differenti personalità: Rocco Carbone e Pia Pera. Del primo non ho evidenziato e non conservo praticamente nulla. Forse mi è sembrato antipatico e scostante come un po’ traspare dalle pagine di Trevi. Della seconda invece, sicuramente per la consonanza sul giardino, è rimasto il segno.

Ma come ogni libro che parla di qualcosa, il testo ci parla anche molto del suo autore, del suo approccio alla vita, delle sue conoscenze, delle sue vaste frequentazioni culturali, della sua curiosità.

Forse non è un caso che ancora oggi, sulla pagina del Post, questo intrigante influencer digitale dei nostri tempi, campeggia da tempo questa sua citazione: «Non siamo nati per diventare saggi, ma per resistere, scampare, rubare un po’ di piacere a un mondo che non è stato fatto per noi». Sicuramente opinabile e di parte, ma suggestiva. A questo libro il Post dedica anche, com’era prevedibile, un rapidissimo articolo, scarno e senza spoiler sul contenuto. Se proprio uno volesse qualche rapida informazione sul contenuto, sul web si trova di tutto.

Dicevamo del giardino: non conoscevo minimamente Pia Pera ed è stata proprio una scoperta. E’ bello quando un libro cioè un autore, insomma, una persona, fa dono agli altri dei percorsi culturali realizzati, delle scoperte umane incontrate sul proprio percorso. Trasmettere qualcosa di bello e di significativo allarga il raggio d’azione del bello, del vero. Non è poca cosa oggi, dove la diffusione è riservata quasi solo a news più o meno catastrofiche, segnali di timore, fake e tormenti vari. Nella vita e per la vita abbiamo bisogno di contenuti veri, che portino ossigieo e speranza. Anche semplicemente speranza laica, che è comunque intessuta delle stesse dinamiche della vita. Man mano che ci si addentra nei percorsi degli anni, che si accrescono le esperienze, viene a diluirsi sempre di più quel confine tra sacro e profano, per lasciar posto alle cose che contano. E nel sacro possono contare solo le cose che nel profano hanno futuro.

E’ stata così l’occasione per prendere in mano il testo di Pia Pera, dove lei ci racconta il suo rapporto con il giardino, le piante, l’orto, la verdura, i fiori, i semi e l’umile lavoro del giardiniere. Che è poi il primo mestiere che l’uomo ha ricevuto in esclusiva come custode dell’Eden. Mi sembra una buona indicazione (e nel mio caso la ritrovo persino siglata nel nome).

Insomma, una lettura piacevole, densa, ma piena di senso, uno stile scorrevole e gradevole impatto, colmo di piccole sorprese e di complicità.

Ora ho già promesso di passare il libro a Nina, lei sì che è una divoratrice di carta; vediamo come lo trova.

Bellini, questi luoghi di Catania ;-)

Bellini, questi luoghi di Catania ;-)

Sto per iniziare il mio terzo anno qui in Sicilia, da Siracusa a Catania ci sono meno di 60 km, eppure, a parte le necessarie toccate e fughe presso l’aeroporto, non ero mai riuscito a ritagliarmi un po’ di tempo per visitare questa città. A dire il vero mi ero persino fatto consigliare da Mariagiovanna su un possibile itinerario di visita (e meno male che lo avevo scritto, perché pensavamo di andarci come comunità), ma tra una zona rossa e una a pois, le cose non sono andate esattamente nel migliore dei modi.

C’è voluta proprio l’occasione del fratello vacanziero per dedicare finalmente una giornata a Catania.

E ne valeva decisamente la pena, perché ho scoperto come la realtà siciliana non sia semplicemente identificabile con le belle cittadine barocche, un po’ trasandate e sonnacchiose come Modica, Ragusa e Siracusa….

In questi giorni Google Maps doveva avere le sue cose, perché ogni 3×2 esordiva con un “strada sconosciuta” oppure un enigmatico “fare inversione e tornare indietro”, anche se la strada era di quelle importanti e ben segnalata. Comunque, mettendone insieme un paio (chissà perché nella stessa macchina due versione di GMaps sembrano avere identità ed itinerari autonomi!) siamo finalmente arrivati alla zona in cui volevamo parcheggiare: la Via di Sangiuliano. Avevo rispolverato le note messe da parte, senza dilungarmi troppo sui siti ad hoc (tipo: le dieci cose da vedere assolutamente a Catania… per questi link ci pensava Lida).

La nostra prima meta era la piazza del teatro Bellini; doveva essere anche la tappa giusta per una granita e la brioche col tuppo, ma siamo capitati male. L’unico bar aperto della piazza ne era incresciosamente sprovvisto. Allora giusto il tempo di uno sguardo al teatro. Mi sono messo d’impegno e ho percorso tutto il suo perimetro, restando un po’ perplesso per l’esagerazione dei murales, il senso di abbandono e di quasi degrado da cui era circondato l’intero edificio. Difficile convivere con officine, autoriparazioni, saracinesche chiuse da anni, manifesti alternativi, scritte fluo dalla dubbia interpretazione, ma così succede. In compenso almeno la facciata, che collega magnificamente gli edifici attigui, ha la sua maestosa imponenza.

Poi ci siamo diretti verso il cuore della città: la piazza sulla quale si affacciano il Duomo, il Comune e la splendida fontana dell’Amenano. A dire il vero la prima tappa è stata presso il caffè Prestipino. Questa volta non siamo rimasti delusi, anzi, ammirando gli scaffali che grondavano di dolciumi, cassate, cannoli e altri veleni per diabetici, le nostre convinzioni sulla scelta del da scegliere traballavano visibilmente. Poco male, ci siamo rifocillati e poi abbiamo iniziato a contemplare il resto. La fontana dava veramente l’idea di un velo d’acqua impalpabile e fresco, il “lenzuolo”, come viene chiamato dai ccatanesi e quello spazio bianco e tremolante aiutava in qualche modo a sopportare il sole torrido. Poi il duomo, spettacolare e immenso, che richiama almeno per le dimensioni le basiliche di Roma (ormai io mi sono un po’ dimensionato sulle ridotte misure siracusane e il nostro duomo, al confronto, sembra una parrocchietta). E non per niente il primo uomo illustre sepolto in questa chiesa, lo incontri appena entri, è proprio il famoso compositore Bellini. Che dire poi dell’elefante in pietra nera che svetta nel centro della piazza? Dal 1239 è il simbolo della città e riporta indietro nel tempo, viene da pensare a Pirro o Annibale (l’origine della statua sembra infatti legata al periodo cartaginese), ma verrebbe anche da sottolineare il fatto che un tempo gli elefanti, quelli nani, erano di casa in Sicilia, per lo meno, nel …pleistocene. Anche il vicino palazzo del Comune (non per niente si chiama Palazzo degli Elefanti) riserva qualche sorpresa; nel suo androne d’ingresso, vi sono infatti delle splendide carrozze del 1700, una delle quali viene utilizzata ancor oggi, durante i festeggiamenti per S.Agata.

Ma dopo questa abbuffata storico-religiosa, ci siamo deliberatamente confusi nella Pescheria, cioè nel mercato popolare che si snoda nelle vie, nelle piazze e nei sottovarchi a sud della piazza. Un miscuglio di odori e colori, pesce e frutta, verdure e primizie, noci dell’Etna grandi come mele, fichi d’india già belli e pronti e profumo d’arancini (o dovrei dire arancine? hic est busillis); quando ci siamo seduti ad uno dei tanti street food self-service della zona, eravamo già belli che appagati in tutti i sensi (per lo meno, quelli che fanno parte del club dei 5).

Poi una scappata fino al castello Ursino, altro segnaposto di Federico II, tutto circondato come si ritrova oggi dalla lava. Riesce difficile immaginare che all’inizio era proprio a pochi passi dal mare. Meriterà una visita più calma, almeno per vedere il museo all’interno.

E per finire abbiamo dovuto fare una concessione a Lida, e inoltrarci nella “vasca” catanese di Via Etnea. Così l’itinerario era un po’ in versione step&go, con frequenti pause per contemplare le vetrine, ascoltare le dissertazioni dei commessi di Siculamente e cose del genere, superando di slancio le rovine dell’anfiteatro romano (si fatica davvero a coglierne l’imponenza, visto che doveva essere secondo solo al Colosseo di Roma); siamo giunti fino ai giardini di villa Bellini e lì ci siamo arenati un po’, prima di riprendere la strada verso l’aeroporto. Per Lida e Paolo il tour siciliano era ormai alla fine. Ma il bottino di bellezza, colori e sapori che avevano ormai raccolto, non aveva più bisogno di valigie per essere contenuto…

Ecco un album fotografico delle cose belle viste a Catania

Pedalare sotto questo sole…

Pedalare sotto questo sole…

Anni fa Baccini, con il suo tormentone estivo, ricordava che “Sotto questo sole è bello pedalare…” e tutto il resto. bene, tutto questo resto, insieme al bello, ovviamente, l’ho messo nel bagaglio delle esperienze compiute in questi giorni…

Sabato 21, insieme a mio fratello Paolo, ci siamo lanciati nell’impresa di farci qualche chilometro sull’antica via del sale, in groppa alle alpi liguri che fanno da cornice alla nostra terra. L’idea di una sgroppata in montagna riaffiora ogni estate. Lo scorso anno ero riuscito a fare una scappata ad Entracque, verso il rifugio Genova. Quest’anno le cose sono un po’ diverse e mi sarei accontentato di una decina di giorni casalinghi, insieme a mamma. Ma qualche eccezione si può ben fare. Così avevamo cominciato a valutare questa possibilità.

Per approfondire l’itinerario ci eravamo un po’ documentati sui vari siti locali, che ormai presentano con una buona documentazione gli itinerari possibili nell’entroterra: a cominciare dalle brochure disponibili in rete e persino ad un corposo documento con informazioni sui vari possibili itinerari, sempre rintracciato sul sito dell’Alta Via del Sale.

Allora, sabato mattina, all’alba (si dice sempre così ma erano ormai le 7) ci siamo diretti verso Monesi. In macchina fino a Imperia, poi verso Pieve di Teco e quindi, inerpicandoci su stradine non sempre perfette (le recenti alluvioni hanno lasciato il segno e Monesi è stata per mesi praticamente isolata dal resto del mondo!) eccoci arrivati al punto di noleggio della Mela verde. Naturalmente l’idea era quella di utilizzare delle e-bike e siccome era la prima volta che le usavamo in montagna, non sapevamo ancora bene a cosa andavamo incontro.

Senza tanti preamboli e seguendo le semplici indicazioni ricevute al noleggio da Marco, abbiamo subito iniziato a pedalare, apprezzando il valido contributo della pedalata assistita. Le bici erano della Fantic (io ricordavo solo che anni fa era una apprezzata marca di moto da trial) e il funzionamento molto intuitivo. Le batterie erano piene e la salita era tanta. La meta che volevamo raggiungere era il Rifugio don Barbera (un nome evocativo, ti fa pensare ad un gemellaggio con don Perignon o altri riferimenti da cantina…in montagna non stona di certo).

Il primo tratto di strada (i primi 5 km), fino al bivio per il Saccarello, era molto intenso, tutto in salita ma con un fondo stradale accettabile, alcuni tratti asfaltati, altri in cemento, pochi tratti di sterrato. Ma arrivati al bivio la musica cambia. Appena salutate le caprette all’alpeggio abbiamo preso il (duro) contatto con la strada bianca, la sua distesa di pietre e ciottoli, le buche e tutto quello che fa di una strada di montagna il “bello” della montagna. Ma intanto si pedala. Il fondoschiena comincia a sognare cuscini e soffici supporti, ma ad ogni scossone viene riportato crudamente alla dura realtà.

Tanti gli escursionisti, le moto, le altre bici, ma anche le macchine, le jeep… a volte la polvere si poteva tagliare a fette e l’aria di montagna sembrava un po’ deturpata. Per fortuna in poco tempo la situazione tornava limpida, il panorama riprendeva il sopravvento e l’occhio, soddisfatto della sua parte, si rappacificava.

Forse un’idea del percorso può rendere meglio l’idea del nostro tour. Siamo partiti da quota 1370 e siamo arrivati fino a 2240, con un totale di 50,4 km: per essere una prima volta, niente male davvero.

Dopo una pedalata di oltre 2 ore siamo così arrivati al tratto finale, discesa bruttina e piena di sassi, ma pur sempre discesa (e uno già ripensa al ritorno!); giunti al rifugio don Barbera, bello affollato di persone, abbiamo messo le bici sottocarica e ci siamo rifocillati un po’. E subito dopo, un po’ di sgranchimento di gambe nei dintorni, a gustare il panorama.

Quando decidiamo si ripartire scopro, dopo svariati minuti, che il tappo della ricarica non era stato chiuso bene e quindi la bici non voleva ripartire. Così, dopo averla spinta a mano per il primo tratto di salita, dal rifugio fino alla strada, rieccomi pronto per la partenza. Avevo un piccolo ritardo su Paolo, un paio di minuti, e quindi speravo di riprenderlo abbastanza presto, immaginando che avesse già iniziato il ritorno. Lo cerco lungo la strada e così com’ero, con gli occhiali da sole, mi sembra di vederlo ormai più avanti, con la sua maglia blu. Ma sono in tanti a pedalare in questo momento e non è certo facile superare il gruppone. Così penso di accelerare un po’ per riprenderlo. Il caso ha voluto invece che Paolo mi stesse aspettando proprio lì vicino e forse stava contemplando il panorama dall’altro versante. Così nell’illusione di raggiungerlo e lui nell’attesa di rivedermi… abbiamo ripreso la strada del ritorno separatamente. Ma poco danno, non c’erano molte possibili deviazioni… E siccome i 2 telefoni li avevo io nello zainetto, difficile sentirsi anche perché di campo telefonico, a quella quota, sopra i 2000, ce n’era proprio poco.

Il ritorno, o meglio, la discesa, tolti alcuni pezzi in salita, è stato un po’ massacrante. Salti, ciottoli, pietre, polvere (tanta polvere, con tutte le moto che salivano a quell’ora…) tutto documentato con pignola precisione dal mio fondoschiena che ha rilevato ogni buca. Ma vuoi mettere il panorama, gli scorci che si aprivano dopo una curva, il percorso in mezzo ai larici, il profumo di ginepro? Davvero un bel ritorno, nonostante tutto.

A forza di pedalare sono così ritornato al punto di partenza. Quando mi accorgo che Paolo non era ancora rientrato, nel dubbio sul cosa fare, riprendo la bici e risalgo un po’, giusto per attenderlo in un luogo più tranquillo e riposante. Infatti dopo non molto eccolo arrivare, con la sua maglietta blu 😉 e ricompattiamo il gruppo. Ormai il percorso è compiuto.

Sulla strada del ritorno una piccola deviazione verso Lucinasco, per ammirare il laghetto e la splendida chiesa di s.Stefano, del XV sec. Il panorama, come dice mio fratello Paolo, fa pensare più a una collina e un borgo toscano che al nostro entroterra ligure, se non fosse che da tutte le parti siamo circondati da olivi, olivi e olivi. E poi finalmente a casa, dove posso finalmente riconciliare le mie povere ossa su qualcosa di più morbido. Tanto lo so, il peggio arriverà domani 😉

E restano quindi le foto di questa giornata, comprese le aquile che volteggiavano fiere sopra di noi!

Album fotografico del bicitour
da Monesi al Rifugio Don Barbera