Sfogliato da
Categoria: personal-gb

Cosa FAI di bello domenica?

Cosa FAI di bello domenica?

Domenica pomeriggio, tempo ancora indeciso, una città, Siracusa, che invece sta seriamente lavorando per la ripartenza. E oggi lo fa sul versante della bellezza e della cultura, con le iniziative del FAI per la riscoperta di un patrimonio artistico spesso nascosto e quasi sconosciuto.

La giornata del FAI doveva svolgersi a metà maggio, ma siccome eravamo ancora in zona arancione, tutto era stato rinviato; tra l’altro ho scoperto un po’ per caso questa possibilità, visto che il battage pubblicitario era ridotto ai messaggi via mail della newsletter del FAI e al passaparola di qualche amica. Sarebbe bello se il sito del Comune veicolasse anche queste notizie, in maniera più consistente e precisa. Girando sul web non è difficile trovare pagine su Siracusa, ma spesso sono vetrine un po’ stantie e soprattutto poco collegate tra loro e ad ogni stagione decolla un nuovo sito “definitivo” che ama definirsi come “riferimento” per la città… intanto si brancola un po’ a vista.

La visita di domenica pomeriggio era tutta centrata sulla Ortigia minore, quella meno visitata e poco toccata dai flussi di turisti che stanno rapidamente invadendo i vicoli di questa piccola isola nella città di Siracusa. Tutto gravitava intorno alla chiesa di s.Giuseppe. Con un pizzico di soddisfazione p. Salvo, parroco di s.Martino (nella cui giurisdizione ricade questa chiesa) mi diceva che le chiavi erano state finalmente riconsegnate da pochissimi giorni. Valeva la pena una visita pomeridiana, anche solo per sbirciare qualcosa in questo concentrato di unicità.

Così, bici ai piedi, eccomi giungere fino al sagrato di questa chiesa di s. Giuseppe, che ho sempre trovato rigorosamebte chiusa. Il solo vederla spalancata, e incredibilmente vuota, senza nemmeno un banco sul pavimento lucente è già un bello scorcio. Conoscevo già qualcuno del FAI e mi sono subito unito al primo gruppo itinerante. Ottima l’organizzazione, che ha lasciato spazio a numerosi volontari (molti erano dei “semplici” studenti delle superiori, una visita del genere vale molto di più di una interrogazione e sicuramente è un elemento più gratificante, per tutti!); abbiamo iniziato il tour dal cortile (definirlo ancora chiostro fa un po’ tristezza) dell’ex-convento dei domenicani. La Chiesa purtroppo era esclusa dalla visita e non saprei in che stato versa.

Siccome ora è diventata la sede dei carabinieri, almeno la struttura è parzialmente in salvo, anche se adibire a parcheggio quello che era il chiostro, cintato dal suo bel colonnato, fa un po’ tristezza. Come residuo della presenza domenicana, con un rapido cenno all’epoca dell’Inquisizione, ci hanno fatto notare che permane ancora una cella di isolamento che risale proprio all’epoca di quel tribunale… per non parlare di alcuni capitelli che risalgono addirittura all’epoca di Federico II, visto che il convento era “sponsorizzato” da Costanza, la moglie dello “stupor mundi” del 1200, quando la Sicilia insegnava al mondo intero.

Siamo poi andati a visitare due resti di palazzi del 1400, ormai ricondizionati e utilizzati come sedi di appartamenti di prestigio: palazzo Cardona (in stile aragonese-catalano) e palazzo Ferla (in pratica abbiamo potuto ammirare solo il portale, realizzato con un originale bugnato su disegno di una rivista di architettura del 1600 (già esistevano!).

Poi siamo entrati nel museo dei Pupi. Era un luogo che mi ero già ripromesso da tempo di visitare, ma date le circostanze era sempre chiuso. Proprio per quest’occasione sta iniziando a riproporre visite ed eventi. L’ambiente è da subito intrigante, con tutti i pupi in bella mostra di sè appesi alle pareti; lo spazio è piccolo, ma ci attendeva sul piccolo palco proprio il responsabile del teatro, il sig. Alfredo Mauceri (erede della tradizione dei pupari) che dopo alcune parole per contestualizzare questa originalissima e sicula versione del teatro delle marionette, ci ha regalato una piccola ma significativa clip di cosa sono e come funzionano praticamente i pupi, esibendosi in un piccolo dialogo dall’Orlando Furioso.

Incredibile come dei fili e un po’ di carta argentata, un pupazzo e qualche brandello di costume possano ricreare con l’aiuto della fantasia le sognanti atmosfere dell’Ariosto e delle epiche chanson del medioevo.

Poi, dopo un rapido cambio di guide, ci hanno illustrato un po’ le vicende della piazza, delle sfortune legate alla costruzione di un “moderno” palazzo che ha poi pregiudicato la stabilità del vicino teatro (che è un altro dei luoghi off-limit di Siracusa, speriamo in questa estate di riuscire almeno a vederlo, se non utilizzarlo!); e intanto la curiosità si perdeva sui numerosi cordoli in bronzo che solcano il pavimento della piazza, segnaletica di antichi palazzi greci e testimonianza della struttura viaria di un tempo.

Sarà proprio nel vicino Museo del mare che l’esperta curatrice ci parlerà dei numerosi ipogei e percorsi sotterranei che solcano il cuore di Ortigia. Per il momento solo uno è visitabile, quello che dalla Marina giunge fino alla Piazza del Duomo, ma è fitta la ragnatela di passaggi, cisterne e condotte sotterranee che potrebbero, un giorno, formare un’attrazione davvero singolare, una Ortigia sotterranea che affonda le radici nella sua storia bimillenaria.

Proprio nel museo del mare, che purtroppo resterà ancora chiuso, possiamo ammirare i modellini, lo scafo, le costole delle nave, i pezzi e gli strumenti per calatafare le imbarcazioni, sembra un magazzino con tanto materiale accatastato un po’ alla rinfusa, ma era una chiesa e per Siracusa il mare è quasi una religione, visto che sul mare e nel mare si vive.

Quindi ci siamo affiancati davanti all’imponente cancello di quello che sembra una severa scuola, ma se poi si guarda bene nella cancellata si scopre la presenza del famoso “errore” delle antiche 500 lire, la caravella con le vele e il vessillo impossibili, perché l’orafo non aveva tenuto conto del vento. Le due studentesse che illustravano il complesso si sono addentrate negli intricati disegni di conventi, di converse, di pie congreghe di vedove e benefattrici del 1600, mostrando una vitalità che gli stereotipi solitamente attribuiti alle donne dei tempi andati faticano a raccontarci.

E poi l’itinerario continuava, ma ci stavo stretto coi tempi (avevamo impegni a casa e i fornelli reclamavano!), così mi sono staccato dal gruppo, almeno per entrare nella maestosa chiesa di s.Giuseppe. Fa veramente uno strano effetto vedere uno spazio sacro così “vuoto”, pavimento completamente deserto, tra l’altro lucidato a specchio da poco, quindi con un effetto luminoso davvero intenso. L’unica cosa che spiccava in modo evidente, i due organi gemelli, che sovrastano le due grandi porte opposte di questa chiesa a pianta quasi circolare. La stessa cupola, linda e senza affreschi, aumentava la lue di questo ambiente, che ben si presta a luogo per eventi, manifestazioni, concerti, attività a 360 gradi. Di sicuro in Ortigia le chiese sono già numerose e poter utilizzare spazi come questo per attività culturali o di aggregazione, può diventare una soluzione interessante. Ma ormai ero già in fuga. Per questo pomeriggio può bastare…

Ecco in sintesi l’Itinerario che ci è stato proposto: dal Chiostro di San Domenico, oggi Caserma dei Carabinieri, al Palazzo Cardona e Palazzo Ferla, fino al “Museo dei Pupi” della famiglia Mauceri ed al “Museo del mare” della famiglia Aliffi, per terminare nella chiesa di s.Giuseppe, da poco restaurata e restituita alla sua parrocchia di origine (s.Martino)

E perché noi, anche i video realizzati dagli appassionati o dalle piccole case di produzione video, come questo, aiutano ad apprezzare meglio le bellezze di questo spicchio, anzi, di questo scoglio, di terra.

Ecco l’album fotografico di questo breve ma ricco itinerario in Ortigia, piazza di s.Giuseppe e tesori limitrofi.

MAI più incendi… magari!

MAI più incendi… magari!

Maria è una delle volontarie del CIAO più fedeli. Ogni settimana, il martedì pomeriggio, viene da noi per la sua lezione di “aiuto scuola guida”. Ci sono state settimane in cui ci chiedevamo se ne valeva la pena, visto che c’erano solo 2-3 persone; ma adesso che il lokdown ha allentato la sua presa, ogni incontro vede la classe rigurgitare di 10-15 persone. Tutti stranieri che fanno una fatica boia a districarsi tra banchina, carreggiata, sede stradale e corsia (perché l’esame scritto di guida NON è un esame di guida, è un esame di italiano!). E Maria è sempre lì a spiegare, far vedere, rispondere…. Che poi non è proprio la sua 18esima passione, quella della guida, visto che è docente di Arte 😉 ma così è la vita, interessante e insolita.

Tra le altre passioni che vengono nei primi 17 posti c’è poi un caparbio senso del territorio e della sua tutela. Lei è una avolese (e io che insistevo con il barbaro “avolano”…) e ultimamente aveva insistito abbastanza per una manifestazione in difesa del territorio. Dopo il recente incendio a Cavagrande di Cassibile diverse associazioni si sono incontrate per dare un segnale di presenza e di richiesta di attenzione. Il volantino che mi aveva passato era molto semplice, a parte quei termini siciliani che ancora mi borbottano nel comprendonio (faciemu scusciu, chi sarà mai costui…).

E poi a forza di insistere e invitare, visto che il sabato pomeriggio questa volta era più libero del solito e il richiamo di Cavagrande è davvero stuzzichevole (lo scorso anno avevo non solo fatto il bagno nei laghetti, ma anche risalito parte del torrente ed esiste persino il nome appropriato per questa attività: l’impronunciabile streambedtrekking), alla fine mi sono deciso. Andiamo.

Peccato per la strada da fare, un bel tratto, fino a Canicattibi Bagni, poi ci si enerpica verso Noto e si prende quindi la deviazione per Avola Antica, poi con un po’ di fortuna si arriva fino a uno dei vari parcheggi della zona, dove in teoria iniziano i sentieri per scendere nel canyon. Peccato che tali sentieri siano attualmente bloccati per “sicurezza”. Mi dicono che dagli ultimi incendi questa è stata l’unica misura precauzionale. In pratica bloccare ogni accesso, chissà, così forse anche il fuoco leggendo il cartello si adegua…

Arrivato al piccolo raduno (una marcia “non marcia” per evitare assembramenti e infatti nella seconda parte è arrivata anche una volante della polizia, ma tutto in piena tranquillità) ho trovato un bel gruppo di persone. Tante persone, visto che arrivare fin lì richiedeva un po’ di impegno. Famiglie, qualche bambino (pochi, purtroppo), pochissimi ragazzi (c’erano?) tanti adulti e … diversamente giovani. Un tempo le battaglie per l’ambiente e la sua difesa erano appannaggio degli under qualche cosa. Oggi siamo sicuramente più in zona over 30! Ma com’era quel refrain? uno vale uno, vero?

Maria mi aveva subito presentato Saro Cuta del Mai, il movimento antincendio Ibleo,, l’associazione territoriale che si occupa di prevenzione e controllo degli incendi. A pensarci bene dovrebbe essere un compito dei vigili del fuoco o di altre strutture, ma a quanto pare se non ci si muove dal basso si rischia veramente che poco alla volta il patrimonio boschivo si riduca tutto in cenere. Il suo intervento ha fatto un po’ la storia del movimento e delineato le strategie di impegno e intervento. Poi tranquillamente, piccolo fiume di persone, ci siamo diretti verso uno dei simboli assurdi di questa zona, che avrebbe tutti i titoli per essere un parco di serie A. La torretta di avvistamento incendi. Una delle tante cattedrali nel deserto che affliggono i nostri territori (non solo siculi!). Una torretta bella, solida, tutta in legno ma… mai entrata in servizio. Uno spreco di risorse e uno schiaffo a chi invece tiene a queste zone, così delicate. Sulla torretta è stato appeso un cartellone-simbolo con l’elenco degli ultimi incendi scoppiati recentemente. Un rosario di piccole tragedie che, ettaro dopo ettaro, rischiano di azzerare quel grande patrimonio di biodiversità che queste zone conservano ancora.

Bastava affacciarsi qualche metro più in là del grande cerchio di persone per ammirare lo spettacolo di Cavagrande, un incredibile canyon, una spaccatura nel terreno attraversata dalle chiare acque del torrente Cassibile. Un spettacolo!

La passeggiata, accessibilissima, ci ha portato tutti vicino alla torretta, dove si è svolta la seconda parte della manifestazione. Altre parole di commento sull’impegno da assumersi, tutti quanti e poi un rapido passa-microfono per sentire altre voci, altri inviti, altre informazioni sull’importanza di piccoli gesti come questi. Si andava dalla presentazione delle assurde situazioni in cui versa il territorio, la scarsa attenzione delle autorità, le difficoltà nel presidiare i boschi su base volontaristica (eppure si fa e produce risultati), i costi assurdi dello spegnimento di un incendio (così da far immaginare qualche velato interesse perché questa situazione perduri…).

Tanti i cartelloni portati dai partecipanti, per sintetizzare con una frase il grido di protesta e di impegno.

Poi le manifestazioni di attenzione da parte di altre associazioni e persone. Persino il saluto da parte di un gruppo indigeno della Patagonia (il che suonava davvero suggestivo, letto sulla collina davanti al grande canyon di Cavagrande. Davvero il mondo è piccolo e dobbiamo custodirlo, ovunque) e naturalmente tra i tanti accorati appelli e richiami non mancava quello alla Laudato Sii.

A conclusione dell’evento un brevissimo spettacolo, protagonisti gli alberi, i bambini e i piromani, una semplice ma efficace drammatizzazione del problema di fondo che attanaglia queste zone, così preziose. E insieme un richiamo all’impegno personale di ciascuno, per quanto possibile.

Per chi volesse impegnarsi un po’ più concretamente in questo ambito, ecco alcune informazioni utili:

PROBLEMA INCENDI E SOLUZIONI EFFICACI:
Sei stanco del problema degli incendi?
Vorresti vivere senza la paura di vedere il tuo terreno e i luoghi più belli e più cari intorno a te distrutti dalle fiamme?
Sei consapevole di vivere in un luogo in cui, se non ci fossero incendi dolosi ogni anno, ci sarebbero enormi e straordinarie estensioni di boschi e macchia mediterranea?
SE ANCHE TU VUOI VEDERE CAMBIARE QUALCOSA? ENTRA nel M.A.I. (Movimento Antincendio Ibleo)
Rete di cittadini ed associazioni che cercano soluzioni e agiscono per farlo.Specialmente se abiti in campagna o sei semplicemente sensibile al tema, compila il seguente modulo online in pochi minuti per creare una rete di mutuo aiuto, formazione e segnalazione, in caso di incendi.
COMPILA IL MODULO:
https://forms.gle/HMynzYE6yFa55gLD7

E naturalmente ecco qui le altre foto di questa manifestazione del 5 giugno 2021
marcia MAI Cavagrande del Cassibile – Avola

2a dose ok

2a dose ok

E finalmente, dopo quasi 3 mesi di attesa, ho ricevuto anch’io la 2a dose del vaccino, proprio l’ultima domenica di maggio. Astra Zeneca, ovviamente, che al momento sembra la versione più diffusa qui in Sicilia. Il pensiero va al giorno della prima dose, con la triste notizia del decesso di una persona, sempre qui a Siracusa che aveva ricevuto lo stesso vaccino (quindi il lotto vaccinale era il medesimo che avevo ricevuto anch’io), alimentando così le voci e le problematiche fin troppo diffuse sui social di un possibile rischio maggiore rispetto al Moderna o al Pfizer. E invece, ormai sembra proprio tutto superato.

Ricordo anche la sera della prima dose; un po’ di indolenzimento, come quando fai esercizi fisici che non affrontavi da tempo e i muscoli ti sembrano ricordartelo ampiamente. Ma niente di particolarmente fastidioso. Invece per la seconda dose proprio nessuno strascico.

E il giorno dopo ho subito provveduto a richiedere il certificato che l’ASL locale sta rilasciando, in attesa di un più generale greenpass a livello europeo (e uno si chiede come mai ci voglia così tanto, visto che ormai tutti i dati delle vaccinazioni sono ampiamente digitalizzati).

Presso il centro vaccinale, il siracusano Urban Center, c’era solo un foglio esposto che ricordava questa possibilità/necessità, con un QR code che rimandava al sito dell’ASP. Peccato che ogni tanto, collegandosi a questo sito, dove il pulsante di RICERCA è annegato nei widget laterali (quando per buona prassi dovrebbe essere posizionato in cima alla homepage) si incappa in questa impietosa schermata

https://www.asp.sr.it/

Active Server Pages error ‘ASP 0113’
Script timed out
/Default.asp
The maximum amount of time for a script to execute was exceeded. You can change this limit by specifying a new value for the property Server.ScriptTimeout or by changing the value in the IIS administration tools.

Segno del classico problema di sito down, bloccato o con qualche problema negli script interni. Mentre scrivo è sabato mattina, ore 11, speriamo che il problema NON duri fino al lunedì (e fortunatamente, alle 13 di sabato, tutto è tornato online)

Comunque questo certificato, denominato in questo caso Certificato Verde è proprio a prova di bomba, visto che prima te lo spediscono in formato pdf criptato e successivamente ti comunicano la password per aprirlo. Penso ai tanti che faranno davvero fatica a visualizzarlo e renderlo leggibile almeno sui propri device (la soluzione è quella di stamparlo in formato pdf, così da poterlo avere tranquillamente sul proprio cellulare).

Nonostante la vaccinazione sono comunque incappato, recentemente, in una delle tante situazioni che poi richiedono il tampone per assicurarsi di non essere positivo. Ironia della sorte, è successo durante un’attività con la Croce Rossa; una collega dopo un paio di giorni dal servizio è risutata positiva e tutti noi che ervamo con lei abbiamo dovuto fare il tampone, per sicurezza.

Ma mica una volta sola: per i protocolli della CRI ci siamo imbarcati in una piccola odissea di ben 3 tamponi, distanziati nell’arco delle 2 settimane post-eventu.

Devo ammetterlo, sono stati i tamponi più “dolorosi” fatti finora, con grande professionalità ma… davvero quando ti fanno i tamponi ti chiedi come faccia quel cotton fiocc così lungo a … sondarti fino ai confini della materia grigia! Alla fine la dottoressa mi dice: “Ma lei ha la deviazione del setto nasale, vero?”.

Buono a sapersi, adesso so una cosa in più sul mio povero naso 🙂 e ripensando ai miei tanti piccoli problemi da ragazzo (sangue dal naso, lievi difficoltà di respirazione…), uno si illumina e comprende anche il perchè! Speriamo di farne tesoro.

Meno male che eravamo un bel gruppetto di volontari CRI a consolarci per questi tamponi fuori programma, mentre la bravissima dottoressa, sull’ambulanza adibita a mini centrovaccinale, ci trapanava il cavo nasale con i tamponi. Fortunatamente il risultato è sempre stato per tutti un bel “negativo”. Ormai si sprecano le battute sull’ambiguità che il termine positivo porterà con se’ per lungo tempo

Dalla follia alla salvezza

Dalla follia alla salvezza

Gli intrecci della vita sono a volte sorprendenti. Ricordo con sprazzi di suggestiva lucidità un periodo di tanti anni fa; ero all’ultimo anno delle magistrali, nei pressi di Velletri. Avevamo iniziato con il nostro gruppo di post-noviziato una esperienza particolare; ogni sabato del mese ci recavamo ad Ariccia, presso una immensa casa dei Fatebenefratelli. A quei tempi i manicomi esistevano ancora, eccome. In quel grande ospedale una zona era interamente riservata ai malati di mente. Si entrava e ci si ritrovava catapultati in un’altra dimensione.

Vedevi gente tranquilla con la valigia in m ano, attendere serenamente, accanto al lampione, il passaggio del bus. Ci dicevano che faceva così, ogni giorno, si preparava al mattino e poi rientrava la sera. Da anni. Gente coi vestiti sbrindellati, o anche senza, girare come attori che provano il copione, declamando versi o investendo di improperi le parolacce. E c’era anche il semplice scroccone che ci aspettava per chiederci una sigaretta, un momento di ascolto. Poi c’erano i reparti e lì capivi che alcuni malati di mente forse erano tutt’altro. Ce n’era qualcuno bloccato a letto, senza il dono della parola. Ma aveva il sorriso e sembrava già un parlare. Naturalmente noi eravamo a contatto con quelli “semplici”, i buoni, come direbbe Mencarelli.

Con queste premesse, leggere questa storia mi ha fatto andare rapidamente con la mente e il cuore a quel periodo, vissuto praticamente nelle stesse zone raccontate dall’autore, con pochi anni di differenza. Questo collegamento aiuta certamente a rileggere in filigrana non solo la sua storia, ma anche la mia esperienza… Per non parlare della suggestione che i Castelli Romani esercitano anche solo per i profumi e i luoghi, ormai sedimentati nella memoria.

E tanto per cominciare, è strano leggere un libro in cui il protagonista abbia il nome dell’autore, come se una sorta di identificazione si potesse cogliere. La storia è molto semplice e ben condotta. Un giovane ventenne, con piccoli precedenti, uso abituale di sostanze, una psiche fragile, dà di matto e viene colto da un raptus violento, in casa sua. Il padre rischia grosso, investito da questa aggressività. Viene applicato d’ufficio un TSO, un trattamento ospedaliero obbligatorio. Insomma, lo mandano in ospedale per una settimana, sperando che nel frattempo la buriana si calmi.

Siamo nel 1996, l’anno dei mondiali di Arrigo Sacchi, un evento che scorre e affiora ogni tanto nel racconto. Lo spaccato della società italiana della fine del secolo scorso è ben nitido, coi suoi rituali, le sue abitudini e i suoi alti e bassi. Nel libro si racconta in modo meticoloso e ordinato questa settimana, attraverso la voce narrante di Daniele. Il piccolo mondo dei pazienti del suo reparto viene scandagliato in profondità e con tenerezza inusuale. Ogni malato che Daniele incontro diventa prima un nome e poi, poco a poco, una persona; in alcuni casi si trasforma persino in amico. E’ un microcosmo vissuto dall’interno con sofferta compassione, perché l’autore condivide la tragica scintilla di questa follia che a volte emerge, come una sorgente carsica, e si impadronisce con violenza della persona, come nel concitato finale, dove al posto di una calma apparente per la conclusione del periodo di cura, tutto sommato normale, viene travolta dallo sfogo violento di una persona che si vede negato un semplice gesto di umanità.

Tanti i temi che affiorano: dalla condizione difficile dei malati di mente, al personale che lo accudisce, dalla considerazione della malattia mentale (basta la chimica, no, serve la relazione…anche i dottori incontrati nella settimana sono divisi su queste sponde metodologiche).

Nel frattempo il protagonista ha tempo per rivedere i suoi rapporti familiari, la sua storia, i suoi problemi, il rapporto con la madre e il padre. Riflette persino sulle conseguenze di bravate adolescenziali che si ritengono spesso senza nessuna importanza, e invece si troverà a diretto contatto con una persona che porterà per sempre le ferite di queste azioni, dimenticate dagli stessi attori.

Il campionario di pazienti che Daniele racconta sono persone vive e vivide, ciascuna con il suo dramma e le sue paure. Nel riparto si scopre così una sorta di cameratismo insperato, una rivincita dell’umanità nei confronti della malattia e dell’assurdità di certi trattamenti. Una ricerca di senso e di salvezza che nobilita le persone, nonostante l’ambiente e il destino che li ha relegati ai margini della vita e della società.

Molto particolare il linguaggio: un italiano scorrevole, accessibile e forbito per tutte le parti narrative e poi un romanaccio sghembo e spesso slabbrato per i tanti dialoghi del testo. Sarà certamente un libro difficile da tradurre! Fa capolino anche un’altra delle passioni dell’autore: la poesia, che sembra una delle caratteristiche del protagonista; per alcuni giorni il racconto ruota intorno alla scrittura di una poesia, che poi verrà letta prima ai compagni di camera e non verrà invece declamata al dottore che l’aveva espressamente chiesta, ma reo di aver confuso platealmente il suo paziente. Spesso i malati sono ridotti a numero, compilation di farmaci da assumere, a fascicoli da compilare e l’errore di lettura sembra una semplice svista; una tragedia, invece, per il soggetto.

Libro interessante, che ricorda la condizione dei reparti psichiatrici fino a non molti decenni fa e obbliga a mantenere viva l’attenzione per il disagio mentale di tante persone, i “fragili” della nostra società.

Sono del mio amato

Sono del mio amato

Ogni tanto mi capita di divagare e di lasciarmi guidare dagli eventi, più che da scelte calcolate. Ci può stare. Mi è capito questo libro e le info di massima andavano in rotta di collisione con qualcuna delle mie curiosità del momento.
Così ho iniziato a leggere.

Si tratta del secondo libro di Annick Emdin. Il nome suona molto straniero, ma poi curiosando e leggendo in rete scopri che si tratta di una giovane scrittrice italiana, in quel di Pisa, con la passione del teatro…

Il libro si lascia leggere molto bene, è scorrevole e soprattutto nella prima parte la scelta strutturale (o stilistica?) di alternare un episodio del presente con uno del recente passato è stimolante. Capitoli brevi ed episodi molto concreti, non si coglie quasi la fine dell’artificio nella parte finale, dove ormai la narrazione diventa unica.

La storia si svolge all’interno e all’intorno del gruppo ebreo ultraortodosso della comunità dei charedi. Ma la parte antica della narrazione riguarda un personaggio ebreo che vive durante il secondo conflitto mondiale. Si inizia con la storia di un matrimonio incompiuto, la fuga dal rastrellamento nazista, le peripezie di 3 fuggiaschi, l’accoglienza in una casa di contadine, poi nuova fuga e il confinamento in campi di concentramento. La guerra finisce e inizia il nuovo vagare alla ricerca di una destinazione. Il primo viaggio si conclude in terra di Palestina, con il sogno di una ricostruzione e l’approdo in un kibbutz.

La seconda è storia dei giorni nostri, una famiglia ultraortodossa, con i suoi riti e le sue strane consuetudini, che vengono tratteggiate (forse senza tante spiegazioni che a volte servirebbero per non confinare tutto nel regno dell’assurdo). Un giovane ragazzo rimane coinvolto in un attentato su un bus; una giovane soldatessa lo scaraventa in un luogo sicuro e lo salva. Una soldatessa ebrea ovviamente. Da qui parte la ricerca di questa salvatrice che finirà per cambiare la vita a questo giovane.

Vengono messi a confronto 2 mondi distanti anni luce, eppure presenti e vivi nella realtà ebraica di oggi. Sono di quest’anno le notizie di alcuni incidenti capitati durante festeggiamenti di ricorrenze speciali o al funerale di un rabbino particolarmente venerato. Tutti abbiamo visto le tribune traballare e poi collassare, oppure le folle incredibili (assembramenti assurdi) di persone senza mascherine e dal tipico vestito ebraico. Risulta difficile capire come queste due anime ebraiche possa convivere sotto lo stesso tetto, o almeno in quartieri adiacenti: Gerusalemme e Tel Aviv, il diavolo e l’acqua santa…

Naturalmente scatta il meccanismo dell’innamoramento, che trascina con sè tutta una serie di scelte di vita, radicali e forse un po’ affrettate. E in trasparenza si ripercorrono anche le vicende del nonno della famiglia, il vero perno della storia, come si capirà nel finale.

Trovo un po’ frettolosi alcuni passaggi e alcune decisioni dei protagonisti; cambiare una vita nel giro di pochi giorni dopo una esistenza scandita dai riti religiosi così particolari e dalle abitudini kosher mi sembra quasi un ridurre il peso di questa tradizione e questa fede a qualcosa di barattabile in tempi rapidi, in fin dei conti di poco valore. Qualche caduta di stile nel linguaggio, che richiederebbe una attenzione più mirata (un giovane charedi ci metterà del tempo ad usare un gergo giovanilistico da bar toscano, comprensibile per molti ma poco adatto al contesto). Infine mi sembra che l’autrice sorvoli troppo velocemente sulle tematiche religiose che sono alla radice della scelta dei vari gruppi ortodossi, che prosperano in Israele ma non solo. Avverto la mancanza di qualche approfondimento e di qualche riflessione più centrata sulla pregnanza dell’esperienza religiosa e sul messaggio biblico che non si limita a qualche citazione o terminologia ebraica. Anzi, spesso l’uso della lingua originale risulta un po’ d’inciampo nella lettura (e non tutti i termini/frasi sono tradotti).

Risulta invece abbastanza realistica la descrizione della vita di questa famiglia charedi, con le sue idiosincrasie e i suoi personaggi originali, dipinti con rapide pennellate, in modo vivace e realistico.

Immagino che l’autrice conosca dall’interno queste dinamiche e queste situazioni, il contrasto tra una modernità in rapida evoluzione e una tradizione antichissima che pretende di non aver nulla da spartire col mondo moderno. Una realtà ancora molto presente, oggi, in Israele. Basterebbe questo per stuzzicare la curiosità di chi desidera conoscere ed approfondire questo mondo.

E mi ricordo ancora di quello che mi era successo un giorno di tanti anni fa, proprio passeggiando nelle stradine della Gerusalemme ebraica, era sabato: ogni tanto uno slargo o un cortile, con frotte di ragazzine allegre a giocare (le donne non sono tenue al rispetto di tutte le norme dello shabbath), vedo un bambino, di pochi anni, coi suoi bei riccioli allungati e azzardo una fotografia. La sua mano inequivocabile scattò subito nel segno del divieto. Non è consentito fare una fotografia in giorno di sabato…