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Prendersi cura…

Prendersi cura…

Ho appena finito il testo di Massimo Orlandi che presenta l’esperienza artistica e personale di Cristicchi. Si intitola Abbi cura di me, come la canzone che ha portato a Sanremo nel 2019 e che sicuramente resterà incollata a questo personaggio per lungo tempo. Con la scusa che tanto non si può e non si deve uscire di casa, ho macinato passi su passi sul nostro splendido terrazzo, alternando la lettura a qualche scorcio al panorama di Siracusa.

Conoscevo già la capacità di Massimo Orlandi, autore del libro, nel far emergere dalle persone le note più personali e vitali. Il libro nasce nel filone dell’esperienza di Romena, una pieve nel casentino che da anni è diventata un crocevia di persone e di ricercatori di senso. Cristicchi vi è capitato qualche anno fa e da allora è diventato un ospite ricorrente e speciale, insieme a tante altre voci significative in campo artistico, musicale, religioso, sociale… Massimo Orlandi è praticamente il “presentatore” appassionato di queste persone e l’estensore di numerose pubblicazioni di Romena.
Il libro racconta in modo originale e molto partecipato l’esperienza artistica e vitale di Cristicchi, dai difficili inizi alla sua attuale situazione. Non è la biografia di un “big”, ma la presentazione di una persona che nella sua vita ha fatto della ricerca sincera un obbligo personale, anche a costo di procedere costantemente controcorrente.
Emergono dal testo le principali tappe di questo artista che inizia come cantante per approdare in seguito al teatro; sono enucleati con dettagli vividi i principali argomenti che hanno segnato le tappe artistiche di Cristicchi. L’esplorazione del mondo dei “matti” e dei manicomi (ti regalerò una rosa), del music-system italiano (vorrei cantare come Biagio Antonacci), la scoperta di argomenti quasi rimossi dalla coscienza sociale (le foibe, il problema istriano….), dei lavoratori toscani del monte Amiata, per approdare infine alle tematiche esistenziali e religiose (abbi cura di me). Una presentazione coinvolgente e completa di questo autore così ricco e significativo.

E fino a qui la mia recensione (vediamo se questa volta me la passano per buona, perché ho già capito che quando è un po’ troppo “partecipata” rischia di non corrispondere agli asettici canoni di Amazon… poco importa)… Ma ogni libro può diventare un segnale di svolta, una indicazione di percorsi nuovi, ma anche di conferme e condivisioni.

Nella parte iniziale in cui si racconta l’interessamento di Simone Cristicchi al mondo dei “matti”, ho subito ritrovato qualcosa di ben conosciuto. Mentre frequentavo l’ultimo anno delle magistrali, nella casa marista di Velletri, avevano preso la buona abitudine di dedicare almeno un pomeriggio al mese a qualche situazione di emergenza. Eravamo così capitati a dare una piccola mano alla casa di cura dei Fatebenefratelli, che si trova presso Genzano, le persone del posto ne parlavano semplicemente come del classico “manicomio”. La legge Basaglia stava appena muovendo i suoi primi passi. E in quel luogo c’era davvero di tutto, dai “matti” delle barzellette (appena entrati ci accoglieva con un saluto sorridente uno di loro, vicino ad un lampione, con la sua bella valigia sempre pronta, gli infermieri ci dicevano che al mattino si preparava e aspettava tutto il giorno che passasse il suo autobus, a sera rientrava e il giorno dopo si replicava…); a quelli che sicuramente avevano perso tante occasioni di vita per chissà quali altri motivi e ora l’unico rifugio possibile era quel luogo protetto; la prima cosa che ti chiedevano erano le sigarette. Credo di aver iniziato a fumarne qualcuna proprio per avere almeno qualcosa da passare a loro, mi sembrava una scusa accettabile… Altri invece erano incomprensibili nel loro mondo distante e distaccato. Gente che girovagava senza sosta, senza vestiti, senza parole… Noi aiutavamo qualcuno per la cena, in qualche caso era necessario imboccarli. E il sorriso che vedevi dopo un cucchiaio di frutta cotta era davvero impagabile. Forse ci vuole il resto di una vita per risarcire quel resto…

E scopro che è proprio quello il luogo di partenza da cui scaturisce una ricerca di Cristicchi, quella che culminerà nella canzone Ti regalerò una rosa… Poi scopro tante altre cose interessanti, dall’attenzione alle “cose”, tipo il Magazzino 18 (e scopro che il fascino che provato per Trieste, anche se l’ho solo visitata insieme ai ragazzi della scuola… è davvero contagioso) al recupero di una dimensione spirituale e religiosa libera ma totalizzante.

Ricordo anch’io quella mattinata, era solo un anno fa, quando ai ragazzi appena entrati in classe (persino troppo bravi i miei ragazzi di seconda A dello scorso anno) messi tranquilli e comodi ai loro posti, ho proposto senza altre mie chiacchiere la canzone Abbi cura di me. Un prof se ne accorge quando gli occhi dei ragazzi viaggiano lontano e scendono nel profondo, come in quell’occasione.

Spesso guardo il cielo

Spesso guardo il cielo

Io guardo spesso il cielo. Lo guardo di mattino nelle
ore di luce e tutto il cielo s’attacca agli occhi e viene a
bere, e io a lui mi attacco, come un vegetale
che si mangia la luce.
(M.G. da “Fuoco centrale”)

Forse più che al cielo io mi soffermo sul mare. Da quando ho il privilegio di aprire la finestra al mattino e riempirmi lo sguardo di questo orizzonte, ne faccio incetta a man bassa. Ricordo il panorama che potevo contemplare a Cesano: aprivo la finestra sulla copertura di un capannone, plexiglas ondulato grigio-sporco, solo una fetta di cielo se ti sporgevi all’infuori.

E poi ci sono gli incontri imprevisti, le intercettazioni della cronaca. Proprio ieri mi stavo ritagliano uno spazio di notizie altre, se posso la domenica mi soffermo con calma sulle pagine del domenicale del Sole24, una consuetudine recente, visto che è solo degli ultimi 25 anni… Mi era caduto l’occhio su un articolo di musica contemporanea. Non è che oggi non ci siano autori di valore, è che troppo spesso ci accontentiamo di quanto conosciamo già. L’articolo presentava un pezzo di musica probabilmente “pesante”, un Requiem dedicato alle vittime del terremoto del 2009. L’ultimo requiem di cui avevo un po’ di memoria era quello di Verdi, per la morte di Manzoni. Ne avevo appena parlato con il mio alunno preferito di questi giorni (è il preferito anche perché è l’unico, Omar), perché stiamo parlando proprio dei Promessi Sposi e del peso che un’opera simile aveva nel contesto storico e culturale dell’epoca. Poi dalla notizia sono passato a Youtube per sentire almeno qualche brandello di questa musica composta da Silvia Colasanti, e poi a leggere alcune recensioni. Il titolo, in particolare, mi sembrava suggestivo, stringere nei pugni una cometa… non sembravano certo parole liturgiche (ma potrebbero diventarlo, perché no…) e quindi la ricerca si sposta sui testi e così scopro l’autrice, Mariangela Gualtieri e naturalmente si apre la caccia ai brani che si possono trovare in rete… ne raccolgo una piccola manciata qui prima di aprire la pagina ufficiale di questa voce narrante. A prima lettura mi sembra di risentire lo stile di un’altra poetessa che apprezzo, Livia Candiani, che ho iniziato a seguire dai tempi delle prime visite a Romena. Ma sarà forse che la poesia di oggi si muove tra spazi e regole comuni, per trapelare ai più.

E giungo anche a rileggere la poesia del 9 marzo, e quindi anche a sentirla e risentirla come una sorta di vaticinio e riflessione su questi tempi difficili, una poesia della Gualtieri che deve aver spopolato sul web (tra consensi e critiche equamente distribuite) ma che ‘scopro’ solo adesso. Segno ulteriore che di solito seguiamo solo che già conosciamo…

Scoprire un nuovo artista, una voce differente, un punto di vista originale è sempre utile, perché quando allarghiamo i nostri, di orizzonti, anche chi ci sta vicino vi si ritrova immerso. E adesso ritorno sul nostro splendido terrazzo panoramico. Non si può uscire, ma da qui il mondo entra.

Mestiere ingrato e indispensabile

Mestiere ingrato e indispensabile

Forse devo andarci un po’ più calmo. L’ultima recensione che ho scritto per Amazon non è stata accettata (ok, capisco, era per un disco e mi ero sbilanciato un po’ troppo per i contenuti e per la protagonista, avranno pensato che la stavo praticamente sponsorizzando ….) e quindi per il prossimo libro ho pensato di restare su livelli più generali 😉

E si tratta del recente libro della Tamaro, un libriccino corto e monotematico. Alzare lo sguardo, sembra persino un richiamo all’Avvento…

E’ tutto centrato sul problema dell’educare, un mestiere ingrato ma necessario. Nel nuovo contesto in cui mi trovo qui a Siracusa, nel CIAO, potrei quasi dire che un certo educare, quello della scuola, non mi riguardi più da vicino. Però il lupo perde il pelo ma non il vizio. Proprio questa mattina sono entrato nella scuola primaria di s. Lucia, a pochi passi dalla nostra sede del Ciao. Accompagnavo Daniel e il suo bambino, Yossef; vengono dall’Eritrea, dopo un’odissea durata anni passando dalla Svezia, strani cortocircuiti della globalizzazione. Il motivo è semplice, seguendo le spiegazioni del nostro avvocato Domenico. Girano un po’ di passaporti con foto molto generiche, chi dirige il gioco affida un passaporto a una persona che parte verso il nord-europa, alle frontiere europee non si accorgono nemmeno che la foto non è proprio quella della persona che lo esibisce e il passaggio è fatto. Poi quella persona riconsegna il passaporto a qualcuno che lo riporta all’origine. E il gioco ricomincia. Con tutti i problemi di documenti finti e falsi che ne scaturiscono. Questo bambino dovrebbe andare a scuola, ha 7 anni e per un po’ dovrà restare qui a Siracusa. Un paio di settimane fa lo abbiamo accompagnato per l’iscrizione ma gli è stato detto che “non c’era posto” e quindi la sua Betlemme ha completato il presepe.

Ma ci stiamo riprovando e questa mattina ho parlato con una docente, molto più aperta e sensibile (una collaboratrice della Direttrice). Forse mi viene facile, esordendo in qualche modo a partire dalla mia esperienza di preside. E in certi casi serve. Vedremo tra qualche giorno, dopo le vacanze di Natale, come andranno le cose. Sarebbe bello che di presepi e di Betlemme ce ne fossero sempre di meno in giro, anche se qui da noi è facile riconoscere tra i nostri amici quotidiani dei pastori, giovani madre e, speriamo, futuri messia…

La Tamaro nel suo testo tocca proprio il tema dell’educare. Ho letto in giro alcune critiche e molti “distinguo”. Un po’ retro, arcaico, sulla difensiva, nostalgico… ma non mi sembra tanto strano o veterotestamentario come testo. Inizia come fosse la risposta a una ipotetica lettera di una professoressa preoccupata sulle derive educative della scuola italiana, con un evidente riallacciarsi alle tematiche pedagogiche care a Don Milani. Ma la Tamaro non si atteggia a provocatore o innovatore, si accontenta di mettere in guardia genitori ed educatori contemporanei sui tanti rischi ormai ben diffusi e conosciuti. La fretta, la medicalizzazione degli alunni della scuola (uno slalom tra DSA, BES che spesso fornisce solo una stampella perpetua per i nostri ragazzi). Da persona esperta e intelligente non si perde in sterili accuse nei confronti di certe esagerazioni tecnologiche o burocratiche piuttosto diffuse nella scuola ma mette in guardia su adozioni troppo acritiche e conformistiche di questi trend, apparentemente inevitabili. Invita quindi a ragionare con la propria testa senza adeguarsi supinamente ai vari diktat. E insiste su un approccio umano all’educare, perché la tecnologia non è sufficiente. Forse potremo sostituire le api con droni impollinatori ma una carezza non è la stessa cosa di una pressione esercitata da qualche macchina.

Testo rapido e utile per una riflessione. Si può concordare o dissentire ma la posizione espressa è sicuramente condivisa da molte persone, anche da tanti docenti. Tra l’altro era proprio fare la docente il sogno lavorativo dell’autrice, che rivela inoltre le sue difficoltà personali (sarebbe stata sicuramente classificata come BES, data la sua sindrome di Asperger (che ultimamente l’ha portata ad annunciare una sorta di ritiro dalle pubbliche apparizioni)). Personalmente condivido alcune preoccupazioni ma penso che un corretto e competente uso di tecnologie avanzate possa essere un formidabile aiuto; ma come al solito il problema non è tanto nelle tecnologie disponibili quanto nella capacità di integrarle con intelligenza quando necessario (e in tanti casi siamo veramente indietro e timorosi nella loro applicazione). In conclusione, buoni spunti di riflessione e piste da approfondire: la posta in gioco è semplicemente il futuro della specie.

Pecore, pastori e rinoceronti

Pecore, pastori e rinoceronti

Da quanto? Da quanto tempo non facevamo insieme il presepe e l’albero, qui a casa nostra, una Sanremo dalle giornate terse e ormai invernali. Quei giorni che ruotano intorno all’Immacolata, tra una festa milanese per il 7 e un compleanno di mamma che si celebra proprio il 9. E così, vivendo tranquillamente alcuni momenti senza impegni particolari, Massimo si è attivato e pervaso dal sacro fuoco dell’entusiasmo ha fatto la proposta.

Facciamo l’albero, e il presepe. D’altra parte a Napoli e dintorni se non hai già allestito il “grosso” del presepe per l’8 dicembre siamo già un po’ fuori tradizione. Se no ti riduci al 23 dicembre, a tirar fuori frettolosamente qualche statuetta, una casina accartocciata, brandelli di muschio da smistare sul tavolino e un groviglio di lucette. Quest’anno avevamo il tempo giusto e ci siamo messi al lavoro. Perché dietro al presepe c’è più vita che pecore, più fascino che lucette…

Mi vengono sempre in mente a questo proposito i racconti di Natale di Buzzati. Da buon ateo devoto (sua la preghiera” Dio che non esisti, ti prego…”). Pensavo che qualcuno si fosse dedicato a raccogliere tutti i racconti che ha disseminato nelle sue opere; l’unico testo che ho trovato velocemente in giro è solo un generico “E se poi venisse davvero? Natale in casa Buzzati…“. Non so se ce ne sarebbe da compilare una raccolta ma ne ho usati spesso in occasioni natalizie; dagli antichi fotomontaggi, alle diapositive, ai powerpoint. Ce n’è troppo di Natale, il prete don Valentino che disperato viene mandato dal vescovo perché nella fredda cattedrale il buon Dio si è stufato di aspettare gli uomini, oppure i due bizzarri alieni che interrogano il prete chiedendogli spiegazioni mistiche sugli umani… E la sua sensibilità supera di certo la poca fantasia di tanti affezionati al presepe.

Ma torniamo alle scatole del presepe. 3 per l’esattezza. Qualcuna raccoglieva, come tesori di un museo chiuso da tempo, le statuine che forse avevano segnato i miei primi presepi; qualcosa come 50 anni fa, verrebbe quasi da dire “bei tempi”. Così con Massimo abbiamo messo sul tavolo tutti i personaggi presenti. E qui cominciano i problemi. Passi per i 2 sangiuseppe e il quarto remagio, ma che cosa ci faceva un rinoceronte tra gli animali del presepe? Aveva marcato male all’apello delle pecore, era invidioso delle due corna del bue? A scanso di equivoci lo abbiamo radiato dal presepe, seduta stante, e rispedito allo zoo, cambiandogli definitivamente di scatola. Le pecore erano in buona forma, una mezza dozzina. C’era persino il pastore della meraviglia, quello che vede la luce e rimane estasiato; deve arrivare di gran corsa l’angelo a svegliarlo e dirgli di sbrigarsi ad andare con gli altri. Anche per gli angeli eravamo messi bene, un paio al completo e poi il mistero di un paio di ali che non siamo riusciti a rifilare a nessuno, nè ad un pastore un po’ anonimo e tantomeno a una mugnaia con la sporta sul fianco. Infine un agglomerato di casette da farci un rione sanità in miniatura.

Insomma, i pezzi c’erano e per non far torto a nessuno li abbiamo sistemati quasi in fila indiana, salomonicamente divisi a metà tra destra e sinistra, a scanso di rimpasti politici. Ora toccava all’albero. Eravamo convinti di avere il nostro bel spelacchio da sistemare, in due pezzi, ma poi ci siamo resi conto che erano due mini-alberelli. E anche in questo caso abbiamo optato per la lex difficilior, scegliendo il migliore, cioè quello con la punta meno svampita. A questo punto abbiamo pianificato in 3D un attento studio di masse e volumi e sistemando alcuni mobili che nei prossimi 20/30 giorni potevano benissimo essere messi in quarantena, ci siamo avviati a completare l’embrione dell’opera.

Insomma, tra una reminiscenza dei tempi passati, un’autopsia di qualche statuina malconcia e l’analisi semiologica dei testi per avvalorare ardite tesi ermeneutiche (“se i pastori e le pecore dormivano all’aperto non poteva certo essere il 25 dicembre….”) abbiamo dedicato un bel momento della serata a questa preparazione. Mamma, in disparte, apprezzava il lavoro, fornendo a volte qualche consiglio per riutilizzare tutto l’utilizzabile. Si fa Natale anche così.

Ci mancano solo un po’ di lucette, qualche fascia di contorno e qualche pianta (mica può mancare una stella di natale a suggerire la selva, o lo spatifillo in gran forma, piante sicuramente abbondanti sulle brulle colline di Betlemme, a oltre 900 m. slm!). Intanto i protagonisti principali aspettano per l’entrata in scena clamorosa della notte santa.
Così alla fine ci siamo fermati a contemplare il risultato. Certo, manca ancora tempo e manca ancora molto per sistemare le cose al posto giusto… Ma anche questo aiuta a contemplare in anticipo il mistero di questa vita che continua a nascere in tanti modi diversi e luoghi impensati.

Qualche foto dei preparativi di albero e presepe aspettando Natale

Da notare che siamo a Noto…

Da notare che siamo a Noto…

Forse i giochi di parole con questa splendida cittadina siciliana sono fin troppo facili, ma semel in anno… E visto che domenica scorsa eravamo proprio a passeggiare per le strade di questo capolavoro del barocco siculo, mi viene proprio da pensare che l’ipotesi di scrivere un po’ più spesso su queste pagine è proprio un pio desiderio!

Eravamo con la comunità al completo (ormai il buon Gabriel è nella fase di transizione per lasciare Siracusa, mancherà fino al 29 novembre e partendo il 16 dicembre stiamo anche cercando di lasciarlo un po’ più libero…) e con c’era anche il provinciale, fr. Juan Carlos, che come me non era ancora mai stato in questa località. Tutti ne parlano, le guide la esaltano e allora, andiamola almeno a vedere.

Diciamolo pure, quando io vado a vedere qualcosa comincio con il mettere in pausa le lancette dell’orologio, il tempo della visita è sempre molto relativo e vagare anche senza troppe mete è una cosa che faccio di default; ma non pensano la stessa cosa i miei compagni di viaggio… visto che in meno di un paio di ore siamo persino riusciti ad andare da un’altra parte. Ma è il bello del vivere insieme condividere sensibilità così diverse. Di sicuro se non avessero dovuto aspettarmi ci avrebbero messo poco più di mezz’ora 🙂

In pratica il bello di Noto si concentra lungo i fianchi della strada principale, corso Vittorio Emanuele e il parallelo, corso Cavour (con tutti questi piemontesi mi sento quasi dalle mie parti…); il nuovo asse scelto dopo il rovinoso terremoto del 1693 (che ormai ritrovo in tutte le zone che sto cominciando a conoscere, una sorta di “nuovo inizio” anche qui) per ricostruire la città distrutta, scegliendo coraggiosamente un nuovo sito e cambiando del tutto zona, spingendosi i verso il mare. Nobili e congregazioni religiose sono stati i promotori. E comincio anche a capire, come mi spiegava P. Nuccio, che qui il termine “don” per i preti è poco usato, prevale il “padre”, sicuramente retaggio del tempo incui la gran parte dei sacerdoti erano tutti di qualche congregazione e ben sparuto era il clero diocesano.

Passeggiando per queste ampia strada, isola pedonale e discretamente affollata di turisti, anche in una giornata come questa domenica piuttosto grigia e minacciosa di vento e pioggia, è davvero uno spettacolo. Insomma, la cittadina è decisamente coerente in questo suo centro, dal colore della pietra (estratta in quel di Siracusa, siamo a meno di 30 km) allo stile dominante. Niente accozzaglie di palazzi o soluzioni architettoniche improvvisate, si respira armonia e buon gusto. E questo barocco non infastidisce, non ha un volume eccessivo, ben si adatta al clima e alle persone…

Nella cattedrale, proprio all’ingresso, spicca la croce realizzata qualche anno fa con il legno dei barconi dei migranti. Adesso che sto cominciando anch’io a toccare con mano le persone che questa vita l’hanno vissuta davvero e hanno superato in modo quasi incredibile le traversie di un viaggio biblico, alla commozione sento che deve subentrare l’impegno perché questo rimanga nel passato e non torni a verificarsi nel futuro.

Finiamo il percorso vicino all’immancabile monumento a Garibaldi, anzi, al balcone dal quale, come sempre, ha incitato la popolazione contro la tirannide (per il momento non addentriamoci in terreni scivolosi); poco lontano un giovane nordafricano con chitarra inonda la strada a ritmo di raggae, nemmeno troppo fuori tema con le sue sincopi e il ritmo pittoresco.

Ritiro una mappa della città per una prossima visita, raccolgo qualche squarcio non solo dell’oggi, scopro con piacere che anche qui si svolge una infiorata (l’imprinting di quella di Genzano che porto nella memoria non lo posso certo cancellare), per una prossima visita ci sarà materiale a sufficienza per consolare la fretta di quest’oggi.

E come da programma, ecco un po’ di foto scattate a Noto in questa giornata