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Le armi i cavalieri e le cattedrali

Le armi i cavalieri e le cattedrali

Per togliermi lo sfizio di soppesare con le mani questo mattone dovrò cercarmi una libreria. Meno male che adesso sono a Melilla, fossi ancora a Giugliano, dove le librerie sono negozi praticamente sconosciuti, non saprei come fare.

Le indicazioni vanno dalle 1300 alle 1056 pagine, davvero un volume impegnativo. E tutto perché a maggio, durante la visita della vecchia cattedrale di Vittoria-Gasteiz, in territorio basco, mi ero imbattuto nella statua di Ken Follet che proprio dalla struttura della cattedrale antica, tuttora in corso di restauro, aveva preso spunti e ispirazione per il suo libro. A parte la diatriba con U. Eco sulla “qualità” delle rispettive opere, penso che i livelli da considerare siano diversi, anche se Il nome della Rosa ha contribuito notevolmente ad una ripresa di quella passione medioevale che forse alberga in tutti coloro che hanno masticato un po’ di storia europea. A fasciare i contorni della cattedrale di Vittoria c’era uno striscione tra il provocatorio e il suggestivo “Aperto per restauro“, e la visita iniziava quasi come un tour dentro una fabbrica, con tanto di vestizione del cavaliere che in questo caso prevedeva, in alcuni passaggi, anche il casco di sicurezza. In effetti il percorso si articolava proprio nel cantiere, tra ponteggi, cavi volanti e travi di legno per pavimento, consentendo di vedere così dietro le quinte e dentro il cuore stesso della cattedrale, i passaggi interni, le colonne viste dall’alto, le crepe e i cedimenti inflitti dal tempo. Al termine della visita, tra i ritagli e le immagini da affidare alla memoria, era nato anche il desiderio di conoscere questo autore.

E così, sfidando la mia pigra inclinazione verso i libri di saggistica, ad agosto, quando un po’ di tempo libero in più si poteva trovare, ho preso finalmente questo libro, ma ho iniziato a leggerlo solamente giunto qui a Melilla, approfittando del primo periodo ancora molto “leggero” e dello splendido parco Hernandez che spesso diventa il mio salotto di lettura all’aria aperta (difficile poterlo fare da qualche parte, in Italia, nel mese di novembre!). Ho cercato persino di vedere se esiste un modo per capire in quanti giorni ho letto il libro, ma a quanto pare tramite il Kindle non è ancora possibile. In compenso mi sono reso conto che ormai sono praticamente 11 anni che mi sono completamente votato al digitale; gli unici libri di carta che ho preso nel frattempo o erano quelli di Massimo (sempre comodo avere un fratello con la passione per i libri di carta) o erano quelli che regalavo alle maestre e ai docenti della scuola!

Ed effettivamente la lettura dei Pilastri della terra si è rivelata molto interessante. Il libro affascina, attrae e si fanno le ore piccole per vedere come avanza la storia; lo stile è scorrevole, accessibile e pur giocando con molti termini tecnici legati all’architettura e alla costruzione di un grande edificio non si rivela troppo ostico (a parte il termine cleristorio che proprio non conoscevo). La storia si dipana nell’arco di 50 anni e segue una discreta platea di personaggi, che crescono man mano che la storia avanza. I protagonisti principali sono meno di una decina e numerose altre comparse entrano ed escono dalla storia nei vari momenti, il tutto senza creare un’eccessiva confusione. La storia è quindi molto ampia, si inizia dall’Inghilterra ma si arriva fino a Toledo, passando per la Normandia, Parigi e occhieggiando fino a Gerusalemme. Inevitabile scorgere qua e là un ammiccamento alla possibile versione filmica del romanzo, come di fatti è poi successo.

Tutto ruota intorno alla costruzione della grande cattedrale di Kingsbridge, nei pressi di una abbazia benedettina. Assistiamo alle vicissitudini di Tom, il costruttore, della sua famiglia “allargata”, dei suoi figli e del suo sogno, di realizzare una grande cattedrale, se non la più grande almeno la più bella. Sogno che poi viene ripreso dal figlio (o meglio, il figliastro) che riuscirà non solo a coronare questa impresa ma ad inserire nello stile romanico, allora imperante, i primi vagiti (e non solo) del gotico. Il tutto sotto lo sguardo paziente e paterno dell’abate Philip, forse il protagonista più coerente di questa grande saga. Gli antagonisti sono numerosi e vanno dal vescovo corrotto al conte violento, senza risparmiare frati ambiziosi ed arrivisti. La storia si conclude inserendo nel romanzo anche il martirio del vescovo Thomas Becket, che si opponeva al Re per limitare le sue pretese di controllo in ambito religioso. Siamo intorno al 1170 e la cura dei particolari, la coerenza storica e la concordanza con i fatti reali rende l’opera abbastanza verosimile.

Assistiamo alla nascita e crescita di un piccolo convento, allo sviluppo di un villaggio che ruota intorno all’Abbazia fino a diventare una grande città con svariate cerchie di mura, mercati e fiere importanti, osserviamo la crescita di giovani e ragazze che dall’adolescenza passano alla vita adulta, al formarsi di una famiglia, alla nascita dei figli, amori, inganni, vendette e violenze varie. Uno spaccato credibile della vita in Inghilterra in questo scorcio di anni, tra carestie e annate grasse, commercio della lana e diritti feudali, cavalieri senza scrupoli e donne ribelli… un campionario di esistenze che ricorda i dipinti di Pieter Bruegel.

Gli unici rilievi che mi sento di fare sono sulla “modernità” di alcuni personaggi che popolano il romanzo. Alcuni sono decisamente troppo attuali, indipendenti e autonomi per essere davvero credibili. Giovani donne emancipate e troppo sicure di sè, in un’epoca dove questi atteggiamenti sono davvero rari. Costruttori così intuitivi da saper gestire cantieri ed opere senza praticamente nulla di più che un forte intuito e qualche rudimento pratico, giovani abati che sembrano reduci da un master di public relation di Harvard per come sono accorti e sofisticati.

Sicuramente anche il quadro religioso che fa da sfondo al romanzo, realistico per molti aspetti, mi sembra spesso allineato su stereotipi un po’ stantii: una visione cupa della religiosità, l’insistenza sulla minaccia dell’inferno, un’adesione spesso di facciata da parte di preti e frati…. Manca in effetti un afflato religioso “vero”, che non sia l’arrivismo dell’abate, il desiderio di primeggiare, di erigere la cattedrale più imponente… Un solo episodio si distacca e si illumina di vangelo, quando l’abate Philip, quasi a fine romanzo, perdona un frate che a suo tempo gli era stato di grave intralcio e che lo aveva pesantemente tradito; accoglierlo nuovamente nel convento, ora che il frate si era ridotto a mendicare, è una delle poche luci che ricordano il senso della vita monastica.

Che dire, Ken Follet è tornato di recente alla ribalta e il suo ultimo libro è già un best-seller. Non era difficile da prevedere!

Primo assaggio del Marocco: Nador

Primo assaggio del Marocco: Nador

E dopo qualche rinvio e l’attesa del comodo ponte del 12 ottobre (ottima idea quella di sottolineare il giorno della Hispanidad nell’anniversario della scoperta di Colombo; e io sono uno dei pochi che ha vissuto anche in Italia un 12 ottobre di vacanza scolastica, ma era …nel 1992, in occasione dei 500 anni!) eccoci pronti per la nostra prima escursione in terra di Marocco.

Con l’esperienza che hanno ormai da tempo i fratelli lasalliani, abbiamo deciso di lasciare la macchina vicino alla frontiera, passare a piedi e poi prendere il bus per andare fino alla città di Nador, il centro urbano più importante che si trova nei dintorni di Melilla. Con i suoi 150mila e oltre abitanti, le sue infrastrutture economiche, bancarie (è la terza piazza del Marocco, grazie alle rimesse dei migranti), minerarie (nei suoi pressi si trova il principale polo siderurgico nazionale, può ben considerarsi un “grande” centro. Si trova ai bordi di una grande laguna (il Marchica, che ancora risente dell’influsso spagnolo, visto che tutta la zona e la città stessa si sono sviluppate quando tutto questo territorio era protettorato spagnolo) e ospita un grande porto, sia per commercio che per il traffico di passeggeri. Sta vivendo una fase di rilancio e di progresso, sfruttando anche il territorio a profonda vocazione agricola. Insomma, ben più grande e imponente di Melilla, ma…

Ma dopo la nostra oretta tranquilla di trafila burocratica per entrare in Marocco (e non c’era nemmeno molta coda, di solito di ore ce ne vogliono almeno un paio) e dopo aver preso il bus (questo sì bello moderno e al passo coi tempi) poco a poco la realtà che ti si presenta lascia emergere tante differenze. A cominciare dai marciapiedi che ti obbligano a camminare con molta attenzione per non inciampare, alla segnaletica un po’ evanescente, alle insegne dei negozi molto naif, alle merci che strabordano sui marciapiedi, alle moschee affollate (era venerdì) con tanto di fedeli sui tappeti nelle zone antistanti l’ingresso… Ma per tutte queste cose la Sicilia mi ha sicuramente vaccinato 😉

La nostra però non era una visita turistica senza una meta precisa. A Nador abbiamo dei contatti molto stretti, tutti concentrati nella parrocchia dei gesuiti, che tra l’altro è l’unica parrocchia di tutta la città! Mi viene da pensare a Giugliano in Campania, che come abitanti è quasi equivalente! Una sola presenza cattolica che raccoglie la comunità dei Gesuiti e 2 altre comunità religiose femminili, quella delle Schiave della Bambina Immacolata, più note con il termine di Divina Infantita (povero me, mi ritornano le reminiscenze di Faletti con le sue Piccole Madri Addolorate del Beato Albergo del Viandante e del Pellegrino…), il gruppo più numeroso e poi le suore della carità (s.Vincenzo) che sono solo 2. Se ci metti che i gesuiti sono 2-3 i conti si fanno presto, una dozzina di religiosi in tutto. La chiesa cattolica è nel centro cittadino, presidiata costantemente dalla polizia, con una guardia e una automobile sempre presenti. A sancire l’ufficialità della presenza non manca il cartello che riserva almeno un parcheggio alla parrocchia. Ma basta leggere per comprendere che… Tra l’altro l’ingresso della chiesa è piuttosto defilato, due porte laterali, nessun ingresso centrale; aggiungi pure che il campanile c’è, ma in Marocco come in tutti i paesi musulmani è vietato l’uso delle campane!

Ma nemmeno questo mi sembra rilevante, il bello che ci attende è proprio dentro il sacro recinto che sembra così marginalizzato. Intorno alla chiesa si muovono infatti 2 realtà molto significative: il centro Baraka e l’ufficio diocesano per i migranti.

Il Centro Baraka mi ha subito fatto pensare al nostro Ciao siracusano, ma in un contesto ben diverso. Si rivolge soprattutto al mondo marocchino, in particolare alle donne ma non solo, svolge da anni un prezioso servizio di formazione e di orientamento lavorativo, offre corsi di alfabetizzazione, cucina, ristorazione, istruzione professionale (per elettricisti e idraulici), taglio e cucito, laboratori artistici, ceramica, informatica… si mantiene grazie a progetti internazionali e soprattutto grazie alle sovvenzioni e donazioni di grosse ONG spagnole, dalla Caritas a Mani Unite, dal centro sociale dei Gesuiti alla diocesi di Tangeri, a cui appartiene. Ovviamente conta su uno staff di operatori nutrito e numeroso, non solo su base volontaria, perché una simile macchina organizzativa ha bisogno di una stabilità istituzionale.

Oltre alle classi e alla formazione forniscono anche un pasto a circa 80 bambini al giorno e poi supportano questi bambini (quasi tutti a livello della primaria) con un rinforzo scolastico. Abbiamo curiosato un po’ nelle classi, insieme ad altri volontari di una ONG tedesca anche lei in visita (una cosa che capita spesso, ci dicono!), visitando i vari angoli di questa realtà, che. come dicevo, è tutta realizzata all’interno dello spazio della parrocchia. Insomma, immaginatevi una chiesetta al centro e sui due lati queste due realtà, perché non c’è solo il centro Baraka!

L’altra presenza è quella della Delegazione Diocesana per i Migranti (DDM) . Come ho già avuto modo di vedere in questo territorio marocchino non si “vedono” molti migranti come invece capita nella nostra Sicilia (e non solo a Siracusa); e questa assenza si avverte ancora di più con il dopo-pandemia; non ci sono sbarchi, non ci sono passaggi evidenti, la polizia e l’esercito marocchino svolgono molto bene il silente compito contenitivo assegnato dall’Europa. Ma qualcuno arriva comunque. Sui notiziari di Melilla era presente la notizia che durante il 2023 sono stati “fermati” 3000 migranti che hanno tentato di entrare in Europa a nuoto, fermati e gentilmente rispediti in Marrocco. Quindi un po’ di arrivi ci sono comunque.

In questo centro parrocchiale si fanno carico proprio di questa realtà, hanno messo a disposizione delle stanze, una decina, per una prima accoglienza di emergenza, uno sportello di aiuto legale, una presenza durante le ore del mattino, la possibilità di una doccia; così nel centro si incontrano numerose presenze di “passaggio”, famiglie o mamme con bambini piccoli. E tutta questa realtà viene portata avanti dalla comunità delle suore e da qualche volontario. Interessante ascoltare dalla voce diretta di chi vive questa esperienza quali sono gli snodi principali, le difficoltà, le sfide…

Ed è quello che abbiamo poi continuato anche dopo il pranzo. Per l’occasione erano presenti alcune suore messicane “di passaggio” e 3 novizie in fase di apprendimento della lingua (sembra paradossale, ma due novizie parlano il francese e una l’inglese, mentre la maestra delle novizie non conosce nessuna di queste lingue…); davanti a due spettacolari piatti di couscous e a una sfilata di dolci locali ci siamo davvero scambiati anche le rispettive esperienze.

Sembra proprio che proprio nelle periferie si riesca a realizzare e a respirare un’aria di chiesa più concreta e vitale; e non dipende certo dall’età, visto che a gestire le cose ci sono suore arzille di 80 e 92 anni! Anche in questo caso pensavo alle nostre inossidabili Fidelma ed Edoarda di Scampia. Quando la realtà gronda di emergenze, non è difficile tralasciare le cose meno essenziali e concentrarsi su quelle importanti.

Ci diceva padre ***, il gesuita che è parroco da non molto di questa realtà (in precedenza c’erano i francescani) che la domenica ci vuole poco a rendere viva la celebrazione. I numeri sono decisamente ridotti e l’assemblea si aggira di solito sulle 30-40 persone; ci si conosce tutti, la realtà è ben nota, le situazioni serie sono condivise da tutti perché in un modo o nell’altro si è tutti parte di questi vari progetti. L’intera diocesi di Tangeri conta 8 parrocchie, se guardo sul sito della diocesi di Siracusa trovo un elenco di oltre 40 parrocchie per restare leggeri… certo i numeri contano. Ma soprattutto le persone.

Al ritorno sr. Carmen (Figlie della Carità) ci dà uno strappo in macchina; lungo il percorso entra di straforo (ma lei conosce un po’ tutti qui e tutti la salutano, il velo della suora ha questo potere) in un resort con campo di golf e ville di alto livello, tutto pensato per i turisti stranieri, ma tutto praticamente vuoto (ci dice che il re ha quasi costretto ogni ministro a comprarsi uno di questi residence), sembra un paesaggio da favola e poco lontano c’è un’altra residenza lussuosa del Re, ma ci fa poi notare la presenza di diversi ragazzini, tra i 10 e i 15 anni, spesso seminascosti agli incroci, che aspetta o provano a salire su qualche camion nella speranza di riuscire ad eludere i controlli e giungere a Melilla. Praticamente non ci riesce nessuno; vivono qui in giro, da soli, spesso strafatti di colla e altre sostanze, lei ogni tanto porta qualcosa da mangiare… restiamo decisamente impressionati. Poi, prima di fermarci alla frontiera, ci fa vedere la “muraglia”, la grande recinzione, dalla parte marocchina. Una presenza costante di militari armati, in certi punti quasi ogni 25 m., ci mostrala zona del Barrio Chino, dove nel 2022 è avvenuto il massacro di numerosi migranti. In alcuni punti i due sbarramenti sono così vicini che si può parlare con le persone della zona opposta, ma solitamente c’è un ampio fossato che rende questa zona impenetrabile. Anche questa è Melilla, sull’altro lato di militari spagnoli non ne vedi neanche uno. Torniamo alla frontiera che, stranamente, è libera e velocissima da attraversare. Ultimo timbro sul passaporto ed eccoci di nuovo a casa. Giornata intensa di persone e di esperienze.

Solo qualche immagine di questa giornata a Nador in Marrocco, e molte foto riguardano il “passaggio” della frontiera a Melilla.

Processioni a Melilla…

Processioni a Melilla…

Giornata originale, quella di sabato scorso, 7 ottobre. Vuoi per la festa della Madonna, la “Vittoria” (e forse non conviene approfondire di quale vittoria si tratti, visto che si deve risalire a Lepanto e qui il buon prof. Barbero avrebbe da sturare pagine e pagine di approfondimenti…) vuoi per il tiepido autunno che qui mi sembra ormai la norma; non vedi quasi mai giornate splendide e serene, sempre un po’ infiocchettate da nubi, ma la temperatura è decisamente tiepida, ben più che primaverile. E allora anche il Comune di Melilla si sbizzarrisce in visite al patrimonio architettonico di questa città.

Melilla, dopo Barcellona, è la seconda città testimonial del “modernismo”, un qualcosa che potremmo rendere con il nostro liberty ma con qualche innesto alla Gaudi. Solo che di cose alla Gaudi qui a Melilla ce ne sono poche, forse solo una piazzetta con sedute policrome che ricordano il parco Guell. Ma di palazzi carini ce ne sono invece davvero molti, più di mille e sono concentrati quasi tutti nella zona nostra, poco sotto il collegio La Salle.

Per questo sabato scorso era prevista una visita drammatizzata al nostro quartiere, per mostrare i principali palazzi e le cose più interessanti. Mi aspettavo così una brava e compassata guida con il suo altoparlante, forse un ombrello perché tutti potessero individuarla facilmente e invece…

Invece quando arrivo nella Piazza di Spagna, il punto di partenza, già da lontano sento una banda in perfetto stile jazz, allegro e scoppiettante, poi intravedo un altissimo pupazzo allampanato e tutto intorno una corte di personaggi variamente agghindati, molti in stile belle époque. Tutt’intorno una folla divertita e colorata, famiglie coi bambini, single col cagnolino al guinzaglio, coppie di anziane turiste estasiate, giovani marocchini in monopattino che si appostano ai margini, tanta gente curiosa. E la presentazione è già iniziata, guidata da una Guendalina frizzante che esalta i dettagli architettonici delle opere e dalla sua amica Dorita rosso vestita, petulante e pettoruta che non vede l’ora di concludere il giro per mettere sotto i denti qualcosa di buono. Insomma, la visita è tutta all’insegna dell’allegria, della vivacità e dello scambio ironico tra i personaggi, che man mano aumentano, chiamando in gioco la zia, la suorina del collegio, la cinese dell’emporio, il viaggiatore… e ad ogni tappa la banda si riprende rumorosamente la scena mentre la folla che circonda questo circo ambulante, con calma si sposta fino alla successiva fermata.

Molto allegro e divertente, un modo gradevole di girare anche il naso all’insù per ammirare i palazzi, le vetrate, le cupole, il faro costruito su un condominio, le porte dell’antica sinagoga, gli archi arabeggianti, le vetrate imponenti.

L’altro lato della medagli si è invece manifestato nel pomeriggio. Per la festa del 7/10 era prevista la processione del Cautivo, il Cristo prigioniero, portato in giro dalla relativa cofradia. Qui a Melilla, come in tutta Andalucia, il legame con le confraternite religiose è forte ed evidente, un elemento che connota le tradizione e la cultura, difficile per noi italiani avvertire con la medesima intensità questo senso di appartenenza ad un gruppo così marcatamente definito. Nemmeno le tifoserie calcistiche possono avvicinarsi a questa idea.

Che però rimane strettamente ancorata all’ambito religioso e probabilmente continua a marcarlo in modo fin troppo evidente. L’immagine del Cristo prigioniero mi ricordava molto il simulacro di s.Lucia, con la sua imponenza e sfarzo dell’argento profuso a piene mani. Una “macchina” imponente che viene mossa da decine e decine di portatori, debitamente coordinati per una coreografia dove nulla è lasciato al caso

Solo per fare la curva ad angolo retto richiede almeno 2 minuti di minuziosi piccoli passi, ondeggiature, calibrati ondeggi… insomma, uno spettacolo.

Facendo quasi parte del clero mi sono ritrovato con fr. Eulalio in prima fila, fianco a fianco con le altre congregazioni di suore presenti a Melilla (noi siamo l’unico gruppo maschile!), proprio davanti alla macchina che impediva qualunque visione, meglio allora spostarsi nelle sedie libere, che erano comunque tante…

Poi inizia la processione, in bell’ordine; noi accompagnavamo un bel gruppetto di bambini della primaria, con la loro semplice divisa, perché la scuola La Salle è una istituzione che ha più di 100 anni di presenza nella città; dietro di noi le ragazze del collegio delle suore, anche loro nella classica divisa, gonna scura e camicia bianca. Mi sembrava un tuffo in qualche deja vu alla Almodovar. A seguire altri piccoli gruppi, poi l’imponente macchina e il clero (a Melilla i preti e le parrocchie sono solo 4, si fa presto a conoscerli tutti, uno di loro è il vicario episcopale, visto che la diocesi di riferimento è Malaga) e quindi una banda davvero imponente per numero e potenza sonora. Poi, dietro, il nulla.

Piccola pausa, qualche passetto, la macchina si ferma per dare un momento di sosta ai portatori e così via, percorrendo l’Avenida centrale, fiancheggiata da tanti cittadini, ospiti, turisti, curiosi… Per quasi un’ora partecipiamo all’evento, poi anche i bambini possono tornare con le famiglie e il resto della processione continua il suo percorso, a suon di musica solenne.

Nell’insieme un vago sentore di parata, vetrina ed esibizione.
Mi piace ricordare quello che succede alla sfilata dell’infiorata di Genzano, il giorno dopo la processione, quando lo splendido mantello di fiori viene allegramente spazzato via dalla corsa dei bambini spensierati e divertiti.
E’ vero, abbiamo bisogno di riti ma quando l’acqua fresca si scalda troppo al sole, è inevitabile che la coca-cola diventi l’unico rimedio.

Già che ci siamo, ecco come presentano questi eventi la stampa locale:

Non potevano quindi mancare due immagini di queste diverse “processioni” per Melilla

4 righe da Melilla

4 righe da Melilla

Un po’ per abitudine e quasi per deformazione (anche se poco professionale), mettere nero su bianco quello che si vive e si incontra per me è sempre un modo concreto di riflettere sulle cose, rivedere quanto incontrato, ragionare e, in fin dei conti, mettere legna in cascina.

Anche se viviamo nell’epoca dell’effimero e del rapidamente dimenticato, dei social e dei volontari isolati, ripercorrere con un pizzico di calma quanto appena vissuto può ancora essere significativo. Tra una cosa e l’altra saranno più di 20 anni che provo a farlo, con una regolarità decisamente bizzarra e approssimativa, ma sui tempi e sui gusti, ormai siamo tutti tolleranti.

Sarebbe bello riuscire ad alzarsi presto al mattino, come fanno alcuni, per iniziare con una riflessione scritta, qualche ricordo, qualche buon proposito. Nullo die sine linea ci ripetevano una volta i prof di italiano e soprattutto di latino. In effetti l’esercizio aiuta.
Va ancora bene quando ci si alza pimpanti al mattino, si inforca la bici e se non si hanno impegni, si fa presto a raggiungere qualche tratto della costa di Melilla, che ti fa pensare con calma: “l’Europa è da quell’altra parte…”

Qualche mese fa ho mostrato ad Happiness, una volenterosa studentessa che si stava preparando alla maturità, come si poteva facilmente barare per scrivere un testo. Vai su Chat-GPT e chiedi di scrivere un pezzo di 40-50 righe su un tema ben definito, chessoio, la produzione letteraria di Vittorini. In meno di mezzo minuto ti viene sciorinato sullo schermo un testo che un ragazzo delle superiori forse potrebbe racimolare a fatica in un paio di ore, sbirciando su libri e Wikipedia. Quasi mi divertivo ad osservare lo sguardo tra lo stupito e l’incredulo della ragazza, che si preparava a copiare e poi incollare su qualche suo compito. Ma da buon maestro ho chiuso subito la scheda per dirle che oggi è ancora meglio insegnare a pescare, piuttosto che regalare pesci alla gente. Per un po’ ci crederanno ancora.
O forse, tra non molto, potrebbe essere difficile trovare un pescatore capace di trasmettere la sua disciplina a qualcuno.

E proprio in questi giorni, qui a Melilla, cercavo di aiutare la piccola Jihan alle prese con un testo: sarà la scarsa preparazione, le difficoltà familiari di chi vive in una situazione precaria, ma un testo così frammentato, con numerose parole latitanti, pensieri inconcludenti e termini farciti di errori mi faceva pensare che proprio la scrittura realizza quel miracolo che ci aiuta a riflettere in modo più umano sulle cose.

Si arriva persino al punto di non comprendere cosa manca, dove sono gli sbagli, dove si blocca la comunicazione. Per accorgersi di queste difficoltà basta far leggere ad alta voce: ti accorgi subito se la persona ha per lo meno la situazione in pugno, se comprende il testo oppure…

Ma come al solito sto divagando: con queste righe volevo solo informare i 3-4 amici lettori di queste pagine che se gli fa piacere possono sorbirsi anche un piccolo supplemento. Ho preparato infatti una piccola cronaca di questa mia nuova esperienza. E’ possibile leggere questo primo numero qui, se poi qualcuno desidera riceverla direttamente nella mail, basta che me lo comunichi (al solito indirizzo gbanaudi@maristi.it).

Alla fine di tutto… se acabò

Alla fine di tutto… se acabò

Da quasi 3 settimana ho iniziato la mia nuova full immersion nello spagnolo. Diventa così facile accostare il titolo del libro che ho appena terminato, Accabadora, con questo termine in castellano: se acabò = è finita. E sono ben noti gli strascichi culturali che la presenza spagnola-catalana ha esercitato in Sardegna….

Dopo l’enfasi estiva che ha segnato la fine umana di Michela Murgia, con rigurgiti di commenti, critiche, incensazioni, beatificazioni ed ostracismi vari, mi sono preso il tempo necessario perché tutte queste onde si placassero e lasciassero spazio a qualcosa di meno strillato.

Avevo già letto qualcosa della Murgia (Ave Mary, Noi siamo tempesta, Morgana…) e lo stile interessante e fresco mi era rimasto impresso. Così mi sono ritagliato un piccolo angolo di tempo per leggermi questo suo primo libro, che probabilmente è la sua opera più intensa.

Incredibilmente si trova persino in rete, liberamente disponibile (e sulle pagine di una risorsa accademica piuttosto nota), sicuramente come corollario di altri studi su questa pratica decisamente insolita che traspare in filigrana fin dalle prime pagine del libro.

Fino a ieri, 17 settembre, era ancora uno dei romanzi in posizione alta della classifica (come riportava il domenicale de Il Sole 24 ore), segno che l’attenzione non si è ancora del tutto sopita.

Lo stile, dicevo; essendo un’opera prima è necessario quasi che ci sia una cifra distintiva e sinceramente si avverte in tutto il testo una capacità narrativa intensa.

Ma era la storia che mi interessava maggiormente. Non conosco quasi per niente la Sardegna, ci sono capitato una volta per caso, a Cagliari, per un corso a docenti dell’istituto salesiano. In quell’occasione avevo incontrato anche un amico compagno di studi, come altri sardi che ho incontrato “da piccolo”; una realtà culturale che ha sempre destato in me una certa curiosità e attenzione, sia per la lingua che per quel senso di isolamento che si avverte subito.

Mi sembrava anche interessante la parabola umana della Murgia, di formazione e impegno fortemente cristiano, studi e attività che richiedono una preparazione non superficiale o frettolosa, e quindi una successiva riflessione e maturazione ben evidenti.

La storia di questa bambina che viene praticamente sottratta ad una famiglia (che di figli ne aveva già abbastanza e di problemi anche) da una “tzia” apparentemente sarta. Che poi, ogni tanto, di notte, scompare, quasi sempre nei pressi temporali di un funerale. Ma come può una bambina collegare certi fatti. Sino a quando gli anni passano e un evento in particolare svela il ruolo così unico di questa zia, che quasi in continuità con ancestrali riti tribali viene chiamata al capezzale di persone ormai senza speranza di guarigione o di ripresa, per accompagnarle pietosamente alla morte. Insomma, una pratica evidente di eutanasia, sia pure pervasa da sentimenti di misericordia, per quanto vaghi.

Quello che mi ha un po’ stupito è invece la riflessione o l’approfondimento su questo tema, del tutto assente, un aspetto sicuramente voluto. Non si tratta di aprire un dibattito (il libro è uscito nel 2009) o spezzare qualche lancia. Semplicemente si narra questa realtà, legata ad un paesino ancora culturalmente arretrato della sardegna e forse questa non è la parola migliore, si potrebbe tentare un abbarbicato ad altri valori pre-cristiani?

Il lettore decide, legge, ascolta e può esprimere il suo consenso o il suo fastidio. In un’epoca quasi pre-industriale o moderna, siamo negli anni 60-70 del secolo scorso, si assiste a scene e dialoghi che probabilmente abbiamo ancora incontrato nella nostra infanzia, spettatori di una società in rapida evoluzione. In fin dei conti siamo passati quasi tutti, in Italia, da una profonda dimensione agricola-preindustriale ad una rapida urbanizzazione. In pochi anni il televisore ha soppiantato la stufa o il camino e le dinamiche familiari sono cambiate così in fretta che alcune generazioni hanno condiviso epoche metabolizzate con rapidità eccessiva.

Libro interessante, che si fa leggere rapidamente (in due-tre giorni l’ho concluso) e che obbliga comunque a pensare, se non altro a chiedersi: sono d’accordo? si potrebbe ancora fare? è un retaggio quasi natural-agreste?