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Da 6 a 12

Da 6 a 12

Dunque, la mia prima chitarra qual è stata?

Correva (e come correva) l’anno di grazia 1975, per di più anno santo; eravamo a Velletri e tra le tante cose c’era anche il momento per la musica, avevo doverosamente lasciato perdere il violino (quello di fr. Ugo, costruito praticamente in legno massello di fico, interessante e originale quasi leonardiano ma musicalmente un disastro); con Marco ci eravamo orientati verso la chitarra, che a quei tempi era ancora un po’ un mito post 68ino. Il primo modello, preso addirittura con il contributo del nostro amico artista, Gino Righetto, era una chitarra della Ferrarotti, di Torino. La prima di una lunga serie… Naturalmente si trattava poi di imparare. Spesso quando mi chiedono se suono rispondo che sono un autodidatta con un cattivo maestro; una volta ho seguito persino una lezione (e il maestro era davvero uno che suonava bene, il m. Pieranunzi, padre di Enrico, uno che sta sulla scena del jazz da anni…), ma nei primi anni era tutto un inseguire le tavole di accordi, i primi spartiti, tenta e ritenta… per fortuna c’era il tempo dalle nostre parti e la pazienza di chi ci ascoltava; il clou sicuramente è stata quella mattina, a Castelgandolfo, per una messa quasi fuori ordinanza, con un celebrante d’eccezione, Giovanni Paolo II. Questa messa suonata con la chitarra me la sono persino rivenduta un volta con il card. Siri, a Genova, che pacatamente cercava di convincermi che il Vaticano II non consentiva queste cose… penso di avergli detto che avendo suonato con il suo principale e non avendo avuto nessun commento, anche lui poteva farne a meno… 🙂

Arrivato a Roma agli inizi degli anni 80, i genitori della mia classe, convinti che fosse anche uno strumento didattico, me ne regalarono una più decente, questa volta era una Hagstrom, classica e semplicissima, ma dal suono pulito, gradevole e squillante. Compagna di avventure in classe, campi scout, colonie ad Entracque…

La sonorità delle 12 corde mi sarebbe piaciuta, ma il primo modello avuto per le mani era così scadente che passavo il tempo ad accordare le corde che perdevano nota in men che non si dica. Meglio lasciar perdere.

E se suoni, ovviamente ascolti anche, da Branduardi alla NCCP (ricordo un loro concerto nel nostro teatro del SLM, ai tempi della serie tv Briganti si muore, in pratica tutta la colonna sonora, ben prima che la taranta facesse breccia nei media, come oggi) e poi tutti quelli che facevano della chitarra ben più di uno strumento di accompagnamento, da Ferradini a Guzminac, da Vecchioni a Venditti, da Lolli a Jackson Brown.

Poi gli anni a Genova, nell’87 mi regalano una chitarra seria, una Wahsburn acustica, piuttosto debole se suonata a crudo, ma con una piccola amplificazione si faceva apprezzare; peccato che le tastiere di un’acustica siano spesso una piccola tortura…

Poi si perde facilmente il conto delle chitarre usate, prese, regalate, dalle simil ovation alle tante spalle mancanti, dalle chitarre da sbarco che poi diventano le più utilizzate fino a quelle belle ma… da usare solo nelle foto.

Ultimamente ho preso l’abitudine di lasciarle sul posto e “affidarle” a qualche amico, a qualche amica, perché il destino di uno strumento non è la custodia, ma le mani e le persone, pazienza se qualche bottarella, un graffio, una caduta, ne segneranno la tavola in abete o il manico o gli spigoli (soprattutto gli spigoli!).

E poi tante prove, dalle silent guitar (piuttosto deludenti, anche se avveniristiche) alle acustiche a cassa piccola, da quelle che tentano di imitare le ovation (qualcuna anche decentemente) alle tante cineserie che comunque lasci in eredità per qualche scuoletta di musica.

L’ultimo regalo è stata una LAG classica, quando ho salutato nel 2012 la scuola di Giugliano, bella e dalla sonorità gradevole. Questa l’ho appena impacchettata ed affidata ad un amico, ora dovrebbe essere in viaggio verso Roma, non me la sono sentita di abbandonarla senza nessuno che la accarezzasse un po’…

Dalle suonate con Pietro alle tante occasioni di festa e di celebrazione… una 6 corde ci sta sempre bene…

Qualche boccone a spizzico…

Qualche boccone a spizzico…

Ho un amico (napoletano doc) che prendo benevolmente in giro perché a tavola spesso si mette in modalità voce-off, non parla, abbassa la testa e lavora di posate, dedicandosi con professionalità al cibo, talvolta con voracità.
Io che sono un lento maratoneta della tavola concludo sempre molto dopo.
“A tavola si combatte con la morte”, mi ricorda, citando i proverbi di famiglia.

E immancabilmente lo stesso proverbio (e atteggiamento) lo ritrovo nel libro “Spizzichi e bocconi”, di Erri De Luca.

Ma non solo a Napoli si mangia senza parlare: ricordo ancora, quasi 20 anni fa, una serie di pasti condivisi con una piccola comunità di case-famiglia in Ecuador; una mamma adottiva con 5-6 bambine a tavola, tutte felici per essere tornate da scuola poco prima. E tutte in silenzio mentre si mangia, io compreso. Un “religioso silenzio” che ancora mi parla.

Mi tornano in mente i periodi in cui si mangiava in silenzio a colazione, a pranzo, in quaresima e si attendeva il “benedicamus Domine” per iniziare a conversare. Presso un convento benedettino si leggeva qualche passo da testi religiosi, poi alcuni articoli dei quotidiani, solo prima del caffè un po’ di chiacchiera libera. Al cibo si dedicava sicuramente più attenzione.

Il cibo è uno di quei gesti quotidiani che troppo spesso affrontiamo in modo sbrigativo, con scarsa attenzione, giusto il tempo di adempiere al rito, forse solo al gesto necessario, all’impellenza del mangiare.

Eppure da quando ho cominciato ad affrontare il cibo dal versante di chi lo prepara e lo vuole fare con gusto e passione, le cose cambiano prospettiva.

I libri di Erri credo di averli ormai letti e collezionati quasi tutti, spesso vado ad occhi chiusi, mi affido ad una sorta di tributo di riconoscenza. Fosse anche solo per lo stile, secco rarefatto, dove le congiunzioni non di rado sono al risparmio e il lettore ci deve aggiungere del suo. Il racconto è scarno, richiede partecipazione e contemplazione attenta.

In questo libro le voci, a dire il vero, sono due, quella narrante dell’autore e, alla fine di ogni breve capitoletto, il commento di un nutrizionista, sicuramente amico della voce narrante perché oltre a condividerne la comune origine napoletana sembra adottarne anche visioni e abitudini. Interventi comunque utili, tecnici e interessanti.

Il libro, ben lontano dall’essere un testo di ricette (che comunque alla fine fanno capolino, in appendice) è un’occasione per rielaborare sapori e prodotti tipici dell’esperienza di Erri, che sottolinea l’importanza e il ruolo forte che alcuni piatti hanno avuto nella sua esperienza e formazione. Il testo è leggero, non ha una struttura particolarmente articolata, ripercorre in modo cronologico alcune tappe significative della sua vita dove il cibo è una sorta di colonna sonora (sapora, stavo per scrivere) spesso intrigante e curiosa.

Si ripercorre, in un certo senso, il De Luca che ben si conosce, dai suoi inizi militanti in LC, durante i primi anni di lavoro, poi l’esperienza solidale con i viaggi in Jugoslavia, durante l’epoca cruenta del conflitto a metà anni 90; emergono poi le sue passioni intense, come quella per il testo biblico ruminato anche in carenza di fede e poi le scalate, la vita solitaria e la scelta quasi estrema di vivere ai margini di una comoda vita da autore ormai affermato.

Certo, un testo non fondamentale e sorge il dubbio che ormai di un autore si debba pubblicare quasi tutto, elenco della spesa compreso, per non condannarlo troppo presto all’oblio; ma può essere un’occasione interessante per riflettere, anche noi, su questo gesto antico e così sapido che ogni giorno, a tavola, condisce e sostiene la nostra vita.

Aria di quiete…

Aria di quiete…

In effetti, andar per cimiteri a Siracusa non dovrebbe rappresentare una cosa inconsueta. A guardarla dall’alto è un aspetto che molti ignorano, ma quando si scava il parcheggio del Lidl ecco spuntare una necropoli, proprio all’inizio della zona del tribunale si stende una sterminata zona di tombe e fosse a cielo aperto, tanto che qualcuna è rimasta intrappolata nella banchina che divide i due sensi di marcia!

Ci sono ristoranti con tombe incorporate, un Santuario che conserva nella sua cripta un ipogeo bizantino e relative camere tombali greco-romane (e qui stiamo gettando sale in mare), balze akradine che rigurgitano grotte e tombe, una via dei sepolcri proprio sopra il teatro e per chiudere in bellezza la seconda rete di catacombe cristiane del mondo, dopo Roma. Insomma, di tombe non ne mancano.

Abbiamo persino un angolino del parco del museo Paolo Orsi adibito a cimitero “dei gentili” (quando ancora i non cristiani o gli atei dichiarati non potevano essere sepolti nei cimiteri normali), così per chi vuol capire come mai via Von Platen ha questo strano nome, basta leggere la lapide…

A dire il vero volevo esplorare la zona oltre il cimitero di Siracusa, che si trova su una delle strade di ingresso principale della città; confina proprio con la balza di Epipoli e già in antico questa era zona di sepolture; ma costeggiando il bordo del cimitero ci si ritrova bloccati e non è possibile risalire la collina. Per questo ho proseguito in bici e subito dopo il centro di depurazione acque ecco comparire lo spazio verde ed ordinato del cimitero di guerra.

A questo punto pensavo di visitarlo con calma e magari soffermarmi un po’, leggere qualcosa, trovare un angolino suggestivo lontano del rumore del traffico.

Così entro, il cancelletto aperto e basso è già un invito. Subito si rimane colpiti dall’ordine, la tranquillità e il nitore del luogo; le lunghe schiere di croci quasi plotoni di soldati ormai quieti e rassegnati al riposo, il praticello verde curatissimo e appena rasato, che invita proprio a non calcare in modo indegno questo prato; togliersi i calzari diventa quasi un imperativo biblico, per riconciliarsi con la terra.

C’è solo un piccolo, disastroso, elemento a dar fastidio. Siamo proprio a ridosso del centro di depurazione acque di Siracusa e l’odore che pervade l’intero cimitero è talmente fastidioso e forte da restare con forza in prima linea, rinviando tutto il resto a contorno quasi secondario. Difficile quindi permanere in questo luogo senza sentirlo come mantra assordante e quasi insostenibile.

Passeggio per l’intero giardino, curato in modo ineccepibile, leggo alcune delle tante lapidi, mi soffermo soprattutto sull’età dei giovanissimi soldati, 21 il ritornello ossessivo… ma le narici impongono di proseguire. Noto che nella zona a sinistra dall’ingresso sono numerose le lapidi di soldati sconosciuti. Torna il mente l’ossario di Redipuglia, con il suo milite ignoto e l’unica donna ivi sepolta, ricordo ancora i ragazzini delle tante gite scolastiche accompagnati in quel dizionario dei cognomi italiani che quasi tutti erano in grado di abbinare al proprio…

Mi colpisce poi l’affermazione che l’assalto sferrato dagli Alleati in Sicilia, nell’estate del ’43, sia stato persino più massiccio di quello compiuto quasi un anno dopo in Normandia, almeno, così recita la targa che si può leggere (ingrandendo la foto dovrebbe essere fattibile).

Comunque restano i numeri di questi ospiti del cimitero, il terzo presente in Sicilia di questo tipo (e incredibilmente in tutto il mondo sono più di 20mila!)

Chissà cosa avrebbe risposto Buzzati ai due visitatori dello spazio in uno dei suoi surreali racconti, che chiedevano “come mai tenete tanti campi con delle croci tutte belle in ordine, come fossero dei vivai…”

Mi torna in mente anche un altro suggestivo cimitero di guerra; in Trentino, poco lontano dal paese di Lavarone, proprio vicino alla linea tedesca della Strafexpedition; anche qui il luogo richiama ora alla calma e alla pace, dopo essere stato a lungo teatro di tragedia e dolore immane (ma oggi bastano le immagini dei telegiornali per farci capire come siamo ancora, se non peggio, agli stessi livelli di allora).

Un bosco silenzioso, un prato morbido, uno sfondo di vite tranciate…

E queste sono le immagini del cimitero della Seconda guerra mondiale in Siracusa

Qui, invece, uno sguardo al cimitero di guerra di Slaghenaufi, presso Lavarone (TN)

Perdersi alla fonte Ciane

Perdersi alla fonte Ciane

Sabato pomeriggio di metà giugno, un rapido momento di relax. Si prende la bici e si esce da Siracusa; lungo la strada già si prefigura il sollievo di riuscire a sgusciare nel traffico, perchè l’altra corsia è già completamente intasata e sono solo le 4 del pomeriggio. Ma si sa, l’estate incombe.

Macchine e inquinamento fino al ponte dei 3 fiumi (in realtà uno dovrebbe essere un canale, ma trovare 2 fiumi diversi che sfociano nel raggio di pochi metri è sicuramente un record siracusano) qui quasi si affratellano l’Anapo e il Ciane. E dopo il ponte si svolta per togliersi dal caos.

Una strada dal nome quasi altisonante (Mammaiabica, chi era costei?), ormai affrancata da macchine e confusione. Si supera la ferrovia che sarebbe una fortuna per queste zone ma sembra solo un residuato di poco uso. E poi si prende il sentiero che costeggia il Ciane, per circa 2 chilometri di campagna.

Ci sono distese di grano, ormai maturo e pronto per il taglio, uno spettacolo insolito. Poche settimane fa ero tutto ancora una coperta di verde fresco, ora le spighe iniziano a pesare sullo stelo. Pochissimi gli incontri lungo il sentiero.

Fino a raggiungere la sorgente di affioro del Ciane; sono zone carsiche quelle del siracusano, chissà veramente da dove arriva l’acqua di questo corso. Ancora una volta la passerella che conduce al cuore del papireto è semidistrutta, in 4 anni l’avrò vista ricostruire almeno un paio di volte e sicuramente il tempo è la causa principale.

Sfidando pattuglie di zanzare mi àncoro al tronco adagiato di un eucalipto e come al solito prendo il tablet per leggere in serena tranquillità. Oggi è il giorno di Bobin, di Pia Pera e il suo splendido “Al giardino ancora non l’ho detto”… poi da lontano un cane, abbaia, si avvicina, perlustra.

Entra nell’acqua, felice per il refrigerio, scodinzola, ma non è che l’avvisaglia. In breve si avvertono le campanelle, un suono antico, di gregge in passaggio, ecco sbucare le pecore in grande raduno. Insolito abbinarle ai luoghi di Siracusa, ma qui siamo ormai in aperta campagna.

Il piccolo esercito in tuta di lana si avvicina all’acqua, si consolida sul fosso e inizia a bere, sgomitano, si fanno largo, si spingono; alcune pecore si azzardano a superare il rivo, si avvicinano, la mia bici è ormai in ostaggio al gregge. Ma vanno veloci, dietro le insegue il pastore, persino una macchina di supporto. Sfilano rapide, continuando a bere e cercando spazi di ristoro.

In breve, come sono comparse, ritornano nel silenzio, nel verde, nel sentiero. Momenti bucolici avvolti dai papiri…

Tutte qui, le altre pecore

Finalmente il castello Eurialo

Finalmente il castello Eurialo

Sono ormai da 4 anni qui a Siracusa e finora tutti i tentativi per visitare il castello Eurialo sono andati in fumo, vuoi per le chiusure incomprensibili, la pandemia isolazionista, la mancanza di fondi regionali, ecc. ecc. L’ultimo tentativo a fine maggio era sfumato per un’allerta meteo! Ma finalmente questo sabato 3 giugno sono potuto entrare nei sacri recinti del castello, complice una lodevole iniziativa del Siracusatour.

L’idea di un giro in solitaria l’avevo già tentata in precedenza, ma il parco che racchiude il castello è davvero enorme e non avrebbe molto senso visitarlo senza una qualche guida, perché il degrado del tempo è stato davvero notevole, soprattutto per la parte esterna e non è per niente facile raccapezzarsi o comprendere i vari elementi. Anche perché, come ci ha riferito la guida, a fine 1800 e agli inizi del 1900 molte delle pietre che gli spagnoli avevano tolto dalla zona del teatro greco (dopo il sec. XVI) per consolidare le mura di Ortigia, sono state riutilizzate nell’opera di bonifica della zona dei Pantanelli (un nome che rivela immediatamente la presenza delle malsane palude in quella zona); e tutta la superficie del castello brulica letteralmente di massi che un tempo dovevano costituire la possente sagoma del castello.

Ma non parlatemi di castello, il termine giusto sarebbe fortezza, ha esordito la nostra guida (che per ironia della sorte, o per fato, si chiamava proprio “Castello”). Qui siamo di fronte alla madre di tutte le fortezze, e anche dei castelli medievali e successivi. In tutta la Grecia antica non esiste un manufatto simile e forse soltanto a Selinunte c’è qualcosa di analogo. Da questa opera nasce l’idea di un edificio a difesa del territorio, con tutti gli attributi che nei secoli vi si sono condensati. Fossati difensivi? Qui ce n’erano ben 3. Ponte levatoio? Anche quello c’era… per non parlare dei camminamenti, dei falsi corridoi, dei trabocchetti mortali e delle segrete. E stiamo parlando di un’opera di circa 2500 anni fa, all’epoca in cui Cartagine stava erodendo l’egemonia marittima della Grecia. Per la nostra guida sugli spalti della fortezza dovevano essere posizionate anche alcune macchine da guerra di Archimede (e si è poi lanciato in una dotta dissertazione per ricordarci che gli specchi ustori probabilmente sono un’aggiunta posteriore e apocrifa alla leggenda del genio siracusano). Insomma, sentire la storia di questa fortezza equivale a ripercorrere un po’ l’intera storia di Siracusa antica, dal tiranno che l’ho fatto costruire (che poi tanto “tiranno” forse non era, visto che come premio ai lavoratori più solerti li invitava persino a pranzo a casa sua!) fino alle guerre che ha dovuto sostenere, a difesa della città siracusana. A quei tempi, prima della conquista romana, era decisamente la capitale della Sicilia, con i suoi 27 km di mura e le opere imponenti di cui era ricolma. Ma per tutti i dettagli è molto più esauriente la pagina di Wikipedia.

Insomma, il nostro folto gruppo ha iniziato la visita guidata proprio dalla zona dei fossati, percorrendo con calma il perimetro esterno, dove possibile, e quindi entrare proprio nelle viscere del castello, che è attraversato da alcuni cunicoli sotterranei interamente scavati nella roccia (uno di questi supera i 180 m di lunghezza!). Difficile immaginarsi come poteva apparire un tempo questa fortezza e l’organizzazione del giro aveva preparato una serie di fascicoli con le ricostruzioni ipotetiche dell’aspetto esterno; sul loro sito è visibile un suggestivo video che riproduce questo possibile scenario.

A conclusione del giro, l’organizzazione ha proposto un momento di ascolto, suggerendoci di spaziare con gli occhi e il cuore sul panorama incredibile che si può cogliere da questo luogo così strategico e al tempo stesso suggestivo (nelle giornate serene lo sguardo spazia dalla Calabria a Portopalo), facendoci ascoltare alcune righe di Edmondo de Amicis (proprio l’autore di Cuore), che nel 1908 ha pubblicato anche un libro di viaggi intitolato “Viaggio in Sicilia”:

Tramontava il sole: l’orizzonte era d’oro, le acque dei ponti d’oro, tutto quanto s’alzava sopra la terra e sorgeva dal mare disegnava le sue forme nell’oro. D’ev’essere stato un tramonto simile quello che fece dire al Carducci: Bello come un tramonto di Siracusa.

Sul sito di Antonio Randazzo è possibile visualizzare anche questa ampia presentazione della fortezza.

Ecco ancora il link per visualizzare la ricostruzione in 3D del (probabile) aspetto del castello Eurialo.

giugno 2023 – e da qui è possibile guardare l’album fotografico sul castello Eurialo