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Se capitasse a noi…

Se capitasse a noi…

Ho incontrato i libri di Nicolò Govoni un paio di anni fa e sono rimasto colpito dalla sua traiettoria umana, in piena “ascesa” e per molti versi davvero esemplare. Da un semplice (semplice? mica tanto) inizio come volontario fino a trasformare questo suo desiderio in una forte decisione che ha letteralmente trasformato la sua vita. Continuo a seguirlo su Instragram (uno dei pochi che guardo con attenzione) e nei vari eventi in cui rintraccio la sua presenza. Mi sembra un esempio davvero luminoso di come si possa prendere sul serio la vita e tutto ciò che le gira intorno, senza lamentarsi di quanto male vadano le cose, ma rimboccandosi le mani e cercando di fare la propria parte.

Il suo primo libro, letto un paio di anni fa, racchiudeva la sua esperienza vitale; una sorta di diario che spiega anche la nascita dell’organizzazione umanitaria Sill I Rise. Di solito non dedico molto tempo o spazio alla narrativa, ma l’idea di curiosare sul suo recente romanzo, Fortuna, era ben motivata. Mi sono ben guardato dal leggere qualche recensione prima (anche se le stelline sintetiche sono sempre e comunque un richiamo, un canto di sirena), ma dopo pochi giorni di lettura, ritagliando il tempo quando capita, penso di aver impegnato bene questi momenti. Sarà l’affinità dell’impegno, la sintonia di idee, ma la storia è interessante…

All’inizio del racconto si fatica, volutamente, a situare bene i confini e individuare i personaggi. Chi sono queste 3 persone sul barcone, poi sbarcate, separate, profughe in qualche remota parte del mediterraneo? Avendo toccato un po’ con mano questa realtà, uno si immagina subito un parterre di volti africani, di profughi asiatici… quando invece, dopo alcune pagine, si fa strada la consapevolezza che i migranti di questo volume provengono dall’Italia, da una Milano da poco colpita dai bombardamenti (addio, povero Duomo), una società dilaniata dalla guerra civile e da una morte grigia che reclama il suo tributo di mascherine e contagi, comincia a farsi strada una domanda: e se tutto quello che riguarda i migranti di oggi dovesse toccare a noi? Se dovessimo essere noi i passeggeri e protagonisti dei naufragi, dei respingimenti, delle assurdità burocratiche che spesso vedo ripetersi nei confronti dei nostri ragazzi del Gambia, Ghana, Senegal, Costa d’Avorio, Bangladesh…?

L’idea di un ribaltamento totale (noi al posto di “loro”) viene spesso utilizzata per innescare discussioni e riflessioni, ma non mi risulta che finora fosse il perno di qualche romanzo d’attualità, è comunque una idea che regge e stimola la riflessione.

La vicenda si concentra poi sull’enorme campo profughi in cui i nostri 3 protagonisti vengono inseriti; un centro diretto dalle grandi organizzazioni umanitarie, raccolte sotto l’egida di una Fortuna corporation. In questa sede i migranti sono divisi per provenienza e troviamo quindi gli italiani, i francesi, i greci, i tedeschi… Sarebbe interessante immaginare proprio noi, con la nostra storia e cultura, nei panni dei profughi per guerra, carestie, epidemie. Cosa succederebbe?

Nel campo si agitano diverse iniziative e strategie (niente spoiler) ma i protagonisti poco alla volta si trovano impegnati in uno sforzo di liberazione che si concluderà, con numerosi colpi di scena, in uno scenario non del tutto rassicurante, ma per lo meno in grado di scrollare di dosso la sensazione di essere tutti parte di un grande meccanismo difficilmente superabile.

Nel romanzo mi sembra di cogliere alcune parti un po’ ingenue e alcuni meccanismi forse un po’ precipitosi (ragazzini che sanno a malapena leggere che in poche settimane diventano abili hacker in grado di riconfigurare un sistema informatico, giovanissime fashion-blogger in grado di affrontare situazioni critiche e rivolte popolari, capi politici e masse di gente che agiscono all’unisono in modo un po’ semplicistico, ragazzine quindicenni che si esibiscono in discorsi di feconda oratoria…) ma mi sembrano peccatucci veniali che non tolgono al testo la capacità di suscitare domande. E le domande che Govoni propone servono per formulare le risposte che oggi servono. Nella chiusa del libro l’autore traccia una breve sintesi del suo ultimo impegno, dalla visita al campo profughi di Lesbo, alla fondazione di una prima scuola per difendere i diritti dei minori, poi la fondazione di una simile scuola in Turchia e finalmente in Kenya, dove oggi l’associazione di Govoni è in grado di offrire ai bambini persino un baccalaureato prestigioso a costo zero. Penso che questo traguardo sia stato raggiunto passando tra i tanti problemi che il libro stesso affronta e presenta in modo romanzato. Un testo originale e capace di far riflettere sui meccanismi che oggi dirigono e conducono le danze sul tema delle migrazioni.

Complimenti all’autore e non solo per il libro…

Piccola kermesse domenicale

Piccola kermesse domenicale

Domenica 27 marzo abbiamo vissuto alcuni momenti speciali, con tutta la nostra comunità marista, su invito del centro missionario diocesano. Insomma, ancora una volta p. Salvo ci ha “ingaggiati”. Ma ben vengano queste iniziative…

Si trattava dell’evento “Missio-fest” che da un paio di anni era rimasto chiuso nel cassetto (nelle nostre narrazioni ormai esiste un pre- e un post-lockdown o era-covid!). Con un largo battage e contatti mediatici, quest’anno si è ripartiti, finalmente in presenza e con un bel po’ di gente. A dire il vero i prenotati erano oltre 200 ma poi, complice una giornata che minacciava pioggia, tempo incerto e chissàcosaltro, i presenti erano decisamente di meno, diciamo una metà.

La mattina della domenica prevedeva un itinerario molto semplice: una chiesa disponibile per l’adorazione, un’altra con la presenza di sacerdoti per il sacramento della riconciliazione e un paio di luoghi per ascoltare delle testimonianza. Una coppia fidei donum, una comunità di missionari di Modica (proprio della comunità dove ora risiede p. Gigi Maccalli, che però non era presente in questa occasione) e poi… noi della comunità Marista, ad accogliere i gruppi nella chiesa di s.Giuseppe. Con la scusa che i maristi sono chiaramente abbinabili con la scuola, il nostro simbolo indicatore era belle che pronto: uno zainetto, libri e quaderni e …scuola sia!

Intanto in piazza Minerva, a fianco della cattedrale, gli stand del CSI per consentire minitornei di volley, di calcio, di minibasket. Più mini di così…

Era il giorno in cui arrivava anche un nostro ospite, fr. Orlando, un fratello colombiano, provinciale della Norandina (Ecuador, Colombia, Venezuela…) e Ricky era andato ad accoglierlo a Catania, ma sarebbero arrivati in tempo almeno per l’ultimo incontro.

la comunità (quasi tutta) con fr. Orlando

Schema semplicissimo: con Nina e Kike dovevamo semplicemente spiegare chi sono i maristi, come mai sono finiti qui a Siracusa e soprattutto qual è oggi il nostro impegno “missionario” nei confronti dei migranti. Quando si parla delle cose che si fanno ogni giorno e che si condividono insieme, non è molto difficile coordinarsi. E infatti nei 2 momenti di incontro non ci è stato difficile ricordare e presentare queste cose.

Giunti al fatidico problema del mezzogiorno, ci siamo incontrati con gli altri testimoni nei locali vicini a piazza Minerva, proprio dove ha sede l’Info point e la sala con la proiezione della ricostruzione in 3D dell’antica Siracusa (che ci hanno gentilmente offerto in visione). Un pranzo tranquillo con gli altri testimoni, uno scambio di esperienze e di contatti anche per noi.

Subito dopo l’organizzazione prevedeva un momento di festa e musica, aperto da una performance degli alunni dell’Inda, sul tema fin troppo attuale della guerra, anzi, di tutte le guerre.

E subito dopo, nel particolare scenario del cortile dell’Arcivescovado, con le colonne greche e romane a fare da sedili (insolito assieparsi su cimeli di 2000 anni fa, con la nonchalance dei giovani d’oggi), il concerto del gruppo Basic (alla chitarra il don, ovviamente), con una notevole voce solista femminile e un repertorio abbastanza rockettaro (a iniziare dalla cover di apertura dei The Sun, l’ormai conosciutissima Onda). Peccato per le goccioline di pioggia che consigliavano di restare ai bordi e non sotto palco ma l’effetto era discreto. Mi aspettavo quasi che a fine concerto si trasferissero direttamente in cattedrale, cambiare repertorio, ridurre i distorsori e passare ai canti della messa, ma … era stato previsto anche qui un ottimo intervento di un coro più “liturgico”.

La messa a conclusione della giornata era ovviamente presieduta dal vescovo. Un segno di attenzione e di partecipazione non scontato e quindi positivo. Ma non chiedetemi della predica; sicuramente il nostro Vescovo è un esperto biblista, ma il dono della parola non si alimenta solo di buone conoscenze. Ma siccome è la somma che fa il totale, il risultato finale mi sembra comunque positivo. Ce ne eravamo già accorti, insieme a Nina, la sera prima, durante la veglia sui martiri missionari, dove l’intervento del vescovo non aveva lasciato particolari tracce, ma il contesto aveva parlato in modo esauriente.

Cosa FAI di sabato?

Cosa FAI di sabato?

Lo scorso anno mi ero avventurato un po’ alla buona sulla balza d’ingresso della città di Siracusa, la parte nord, che nasconde alcune memorie importanti dell’antica città greca. Quest’anno, quando ho letto che le passeggiate primaverili del FAI avrebbero percorso proprio quell’itinerario mi ero riproposto di andare con loro. Persino la CRI stava cercando volontari per accompagnare l’evento (tra uno sbarco e l’altro, che non sono proprio diminuiti in questo periodo, anzi…). Ma avendo un po’ di impegni imprevisti non mi ero ancora deciso… però, una volta presa la bici e arrancato per la salita che porta al pianoro di s. Panagia, il grosso era fatto.

Era un sabato ancora freschino e poco invitante; non sapendo esattamente da dove iniziava il percorso, ho provato per prima cosa la discesa nord, quello scorcio inguardabile di Siracusa dove la strada di uscita è affiancata dal rudere di un ponte in cemento armato davvero penoso. Al suo fianco abbiamo rovine greche di 2500 anni fa, ancora in perfetto stato e questo manufatto di cemento degli anni ’70 è davvero un pugno nell’occhio, sbriciolato, rovinato, arrugginito. Un insulto alla bellezza.

Poco dopo la discesa si vedevano già le persone, radunate a gruppetti, che visitavano il luogo. Un luogo solitamente popolato da mucche e animali, aperta campagna; parcheggiata la bici nell’unico spiazzo possibile, ho provato anche a passare da qualche varco. In teoria il terreno è pubblico e di libero accesso, ma è quasi interamente circondato da filo spinato e a volte anche filo elettrico, per le mucche, appunto; ma è quasi una barriera insormontabile che la dice lunga sulla facilità di accesso a queste zone.

Dopo aver chiacchierato con un collega della CRI per sapere dov’era l’ingresso ufficiale, riprendo la bici e mi avvio verso un altro luogo ben conosciuto: la scuola Giaracà, dove ero stato proprio pochi giorni prima per aiutare un genitore cingalese nella difficile impresa di iscrivere la figlia a scuola (difficile perché alla sua richiesta aveva trovato molte difficoltà e porte chiuse che siamo riusciti a superare con la mediazione del nostro sportello del Polo Supreme…). In fondo alla strada altri volontari della CRI, della protezione civile e del FAI; così sono riuscito ad agganciarmi all’ultimo gruppo in visita per la giornata, superando, con sprezzo del pericolo, un branco di lupetti (tranquilli, era l’Agesci), anche loro in visita.

Avevo già visto per conto mio la parte iniziale, ma seguirla con una guida più esperta è sempre un vantaggio; la strada antica, sulla quale era posizionata la porta d’ingresso, sistemata strategicamente in una curva della roccia, si rivela molto suggestiva, anche se oggi rimane solo l’asse viario, con i suoi solchi ben tracciati che rispecchiavano gli assi dei carri; interessanti le buche circolare per facilitare lo sforzo degli animali, che potevano così far maggior presa sul terreno roccioso.

La guida ci ha illustrato a brevi cenni la presa di Siracusa da parte dei romani, sotto la guida del console Marcello; la leggenda recita che i romani, approfittando di uno scambio di prigionieri, avevano adocchiato, potendo guardare dall’interno delle mura, alcuni lati più deboli e poi, nel mese di aprile, mentre i cittadini erano distratti dai riti e processioni alla dea Artemide, che proprio in questa zona a nord aveva una grotta a lei dedicata, hanno attaccato nella zona di Epipoli, ben lontana dal luogo in cui si assembrava la gente; nel giro di pochi giorni Siracusa capitolò. Iniziò così la sua fine.

Proprio nella zona vicina alla grotta si trovano molte vasche e altri manufatti, sembrano loculi e tombe, sono invece i resti di opere idrauliche, poiché in questo luogo passava un antico acquedotto.

La grande grotta che ospitava i riti e gli ex-voti, sembra essere citata persino nell’Odissea, dove si parla di luoghi feraci lungo la costa sicula osservati da Ulisse in persona. Più in alto ci sarebbe anche un’altra grotta, più lunga e sottile, a coda di topo, ma non visitabile.

Diodoro Siculo riporta che ad Artemide erano sacri anche i pesci e qui vicino c’era il porto (siamo nella zona di Targia) e anche un bosco sacro, come riporta Teocrito che narra del rito di animali portati in sacrificio (e non per niente l’archeologo Paolo Orsi in queste zone ha trovato la statua di una pantera), l’evoluzione linguistica, sociale e dei riti religiosi favorirà il passaggio dalla greca Artemide alla latina Diana, poi con l’avvento del cristianesimo, questo culto decade rapidamente.
Artemide era quindi una divinità selvaggia, dionisiaca, ma non violenta. Sarebbe bello immaginare questi luoghi, ora spogli e con pochi arbusti, rigogliosi di boschi e di acque. L’idea della passeggiata era anche questa rivisitazione. Infatti seguendo il sentiero (privato) che conduce fino a quello che viene considerato un casino di caccia di Federico II, a volte denominato anche come castello di Targia, o anche “solacium” (luogo di sollazzo, concretamente), la guida ci ha informato che oltre al buon Federico II veniva a prendere un po’ di riposo da queste parti lo stesso dittatore Gelone anche se gli archeologi non hanno mai ritrovato il luogo esatto citato nei documenti antichi.

Passiamo vicino a terreni dove le piante sembrano voler riprendere il sopravvento, ma scorgere eucalipti in queste zone è decisamente poco gradevole: sono piante non adatte al territorio, importate dopo il 1700 e predatrici di acque, insomma, quanto di meno adatto in zone calcaree e mediterranee. Ritrovare la macchia mediterranea sarebbe veramente una gradita sorpresa.

Abbiamo proseguito l’itinerario dalla grotta fino a una costruzione rustica (a metà strada tra l’Artemision e il casino di caccia, oggi proprietà della famiglia Pupillo, che lo utilizza per eventi e matrimoni); in realtà si tratta di una delle tante torri di avvistamento fatte costruire da Carlo V per proteggersi contro eventuali assalti dei Turchi. Una torre che si confonde con le case rurali che segnano il territorio, ma da vicino si notano subito gli elementi antichi, con tanto di targa in latino che ricorda l’epoca di fondazione.

Finita la visita trovo il tempo per curiosare anche nei pressi di un’altra grotta, proprio sotto la balza che disegnava le mura quasi naturali di Siracusa. All’ingresso ci sono due sorprese: un favo di api in bella vista, completamente al naturale e senza rivestimento (siamo così abituati a vederle solo negli alveari che scoprirle in questa mise un po’ selvaggia fa pensare più alle vespe che ad altro), e poco sotto una pianta di capperi che ha deciso di sfidare la legge di gravità, percui le radici sono ben fissate in una fenditura in alto mentre i rami scendono a fiorire in basso. La grotta è anche interessante, molto profonda e ampia, asciutta, sicuramente utilizzata in tante occasioni, anche se attualmente sembra semplicemente uno stabbio per i vari animali che periodicamente abbelliscono il panorama (e costellano il terreno di abbondanti ricordini…). La voglia di continuare a curiosare in queste zone si fa strada. Forse per altre occasioni.

Un itinerario niente male, per un sabato pomeriggio inizialmente quasi vuoto e privo di sorprese 😉

Ecco qualche scorcio di questa passeggiata con il FAI nei pressi della scala greca

Crogiuolo di culture…

Crogiuolo di culture…

Momento interessante, ieri, legato all’attività che stiamo portando avanti come “sportello” delComune. Fose il nome è un po’ troppo altisonante, visto che si tratta di un’attività che faremmo comunque con il nostro centro del Ciao, ma siccome stiamo partecipando ad un progetto più ampio, dire ad un dirigente che “…mi manda il Comune”, a volte risolve alcuni problemi di fondo.

In pratica stiamo cercando di semplificare ed aiutare le persone straniere a iscrivere i propri figli alla scuola italiana e da pochissimo abbiamo anche saputo che questo “sportello” si dovrà occupare dell’emergenza Ucraina. Il tutto nella solita gestione un po’ siciliana che non sempre brilla per efficienza, chiarezza e affidabilità. Basti pensare che questo progetto è operativo da un paio di mesi ma… nessuno dei partner ha ancora potuto firmare uno straccio di convenzione! Intanto noi andiamo avanti, fornendo un piccolo supporto (anche di baby-sitting per consentire alle mamme troppo impegnate con figli piccoli di poter imparare l’italiano e dovreste vederli come si divertono).

Ma veniamo alle cose concrete. I profughi ucraini stanno arrivando anche qui, negli angoli remoti della Sicilia e Siracusa è decisamente lontana, ma le connessioni tra le persone non si preoccupano quasi mai della carta geografica. Dopo i primi due bambini iscrittti in prima media giorni fa, abbiamo aiutato un’altra mamma a iscrivere la piccola D. presso la scuola di s. Lucia. La mamma è una docente e quindi si sbroglia bene tra moduli e form da completare, a parte la lingua diversa, basta davvero un po’ di inglese per risolvere quasi tutto. E poi, in questo momento, anche se non sembra elegante dirlo, ai profughi dell’Ucraina tutti stanno offrendo facilitazioni e ponti d’oro che gli altri rifugiati non possono sognarsi! Abbiamo tutti negli occhi e nel cuore le scene di morte e distruzione della guerra in corso, forse abbiamo partecipato anche noi alle manifestazioni no-war; ma adesso si tratta di andare al concreto.

E infatti ieri mattina sono andato presso la scuola con la mamma e la figlia dell’Ucraina, ma insieme ad un atro nucleo familiare, ben diverso, proveniente dall’Afghanistan. Lo zio e il nipote in attesa da mesi, esattamente da settembre 2021, di poter mandare il ragazzo a scuola.

Si tratta in questo caso di un problema più delicato e complesso: il bambino è stato portato via dal paese durante gli ultimi disordini dell’estate scorsa; ha perso i genitori e la situazione caotica non ha certo consentito di raccogliere o chiedere i documenti necessari per l’emigrazione. Morale della favola, tra un rifiuto e la richiesta di un documento ineccepibile, a marzo il ragazzo è ancora parcheggiato in un limbo kafkiano, senza poter fare nulla, senza incontrare coetanei, senza poter iniziare un percorso di integrazione, di apprendimento della lingua, niente. L’unico tramite linguistico è lo zio, in Italia ormai da anni, ma il ragazzino a malapena si presenta con un “ciao”.

E per finire in bellezza dovevo anche presentare l’ultima richiesta, per una ragazzina di 12 anni del Marocco, arrivata da pochi giorni qui in Italia; relativamente fortunata perché il fratellino era arrivato in precedenza ed è già regolarmente iscritto alla scuola primaria. Un pizzico di francese (ma davvero poco), per chiarire i vari aspetti con la mamma.

Insomma, quando la dirigente mi ha visto per l’ennesima volta (ma ormai ci conosciamo e quindi capisce subito di cosa si tratta) avrà pensato: “Ancora un altro?”. Invece no, questa volta sono tre.
Per fortuna che la disponibilità anche in questo caso è stata molto cordiale e disponibile.

Anche le maestre e le insegnanti che si incontrano lungo le scale, e con alcune ormai c’è una discreta conoscenza, si ritrovano tutte d’accordo che i “ponti d’oro” per gli Ucraini non possono farci dimenticare le difficoltà degli altri, spesso apparentemente insormontabili.

I risultati sono positivi e rapidi. Oggi, venerdì, la ragazzina ucraina è già entrata a scuola; per il ragazzino afghano dobbiamo completare la documentazione ma la determinazione della dirigente è chiara: si tratta di un diritto del ragazzino da rispettare e mettere in atto. Per la ragazzina del marocco è solo questione di recupero dei documenti necessari per avviare l’inserimento. Per tutti loro sarà una bella sfida, perché entrare in una classe nuova è sempre un’avventura piena di incognite: affascinante ma anche difficile.

Quando usciamo dalla scuola siamo tutti un po’ più sollevati. Parlo con lo zio afghano che ha accompagnato il nipote, lasciando letteralmente a metà il suo lavoro: è un muratore, specializzato in muretti a secco, uno di quei lavori dove di siciliani ormai non se ne vedono più, mani segnate dalla polvere, dal lavoro. Commenti irripetibili sulla situazione del suo paese, segni di stanchezza per l’attesa così lunga, la burocrazia da seguire… lungo la strada incontro il papà eritreo di un altro bambino che conosco bene. Sarà così il nostro futuro, molto variopinto, pieno di lingue e di confusione, ma sicuramente più variegato. E’ l’occasione che abbiamo per costruirlo come dovrebbe essere, senza paure e timori di perdere qualcosa di “esclusivamente nostro”. Un crogiuolo di culture, insomma, dal risultato migliore della somma delle parti.

E comunque l’avventura è solo all’inizio, perché dopo servirà il supporto, l’aiuto per i compiti, un sostegno per le tante attività e pratiche collegate alla scuola. Di scontato e facile è rimasta solo la forza di gravità, tutto il resto è fatica e conquista… Ma so che ne vale la pena.

Parole in corso

Parole in corso

Avevo letto tempo fa, sfogliando un libro di Carofiglio, un passo davvero illuminante, sulla pregnanza delle parole.

Parole che incidono sulla vita più di una lama, più di un evento.

Dopo un inesorabile momento di oblio quel piccolo passo ha cominciato a riaffiorare saltuariamente, poi è riemerso a brandelli nella memora, ma in modo sempre poco chiaro. Sapevo insomma di aver letto un testo che spiegava l’importanza del conoscere le parole ma non riuscivo più a far quadrare le righe e il contenuto.

Ero giunto persino al punto di scrivere una mail all’indirizzo dell’autore (quanto è difficile trovare la mail “vera” di qualcuno che vorresti davvero contattare!), ovviamente senza mai ricevere una risposta.

E poi, quando si dice il caso, eccolo qui il pezzo che stavo cercando, nel testo La manomissione delle parole, e proprio nelle pagine iniziali.

Il piccolo riferimento è questa citazione illuminante di uno studio di tanto tempo fa

Il fatto che nel linguaggio ci fosse un vuoto, mancasse un elemento così importante, causava addirittura il disgusto della vita, spingendo al suicidio le persone. Perché non si era in grado di esprimere quello che si stava covando dentro, come una gestazione indigesta che ha bisogno di uno sfogo.

E’ l’idea che questo fenomeno possa ripetersi in altri contesti, che la mancanza o la non conoscenza del termine giusto potrebbe impedire una vita migliore, la conoscenza chiara delle cose. Pensiamo spesso alla conoscenza come un cumulo di righe accatastate, una sull’altra, una immensa biblioteca. Difficilmente ci concentriamo sulla stabilità di questo edificio, sulla consapevolezza che ogni elemento sia al suo posto. Forse mancano mattoni importanti per l’edificio e l’insieme potrebbe traballare o crollare. Forse non abbiamo ancora trovato alcuni elementi importanti che invece servirebbero a dare maggior senso.

Serve tempo per riflettere, per lascia sedimentare le cose, ma anche per andare alla ricerca e tentare di dare uno sguardo completo, per capire se il panorama è finalmente in grado di dare una risposta esauriente.

A volte un libro serve anche solo per queste poche righe, per questo messaggio che trasmette. E per quei meccanismi che innesca nella mente, alla ricerca di senso e significati.

Dire parole può modificare il corso delle cose, ma per capire le cose abbiamo necessità di trovare parole nuove, diverse, che raccontino in modo più esauriente e vero quanto si incontra. In questi giorni tragici di guerra che vediamo moltiplicarsi ad ogni schermo, assistiamo anche al tentativo, difficilissimo, di convincere molti che la guerra sia ormai una parola da demolire, per lasciar spazio a quanto ormai sembri solo più un volto efferato della barbarie. Come se la guerra autorizzasse una concezione possibilista della realtà, la difendesse quasi e ne manifestasse una sorta di necessità, quasi nobilitando il termine. Oggi siamo in grado di rifiutare questi compromessi e di far emergere l’assurdo che è già sotto i nostri occhi anche se ogni giorno siamo costretti a fare slalom culturali tra news, fake, modi di annunziare capziosi, evidenti forzature e reticenti confessioni.

Quanto ancora ruota intorno alle parole…