Sfogliato da
Categoria: varia

Primo assaggio del Marocco: Nador

Primo assaggio del Marocco: Nador

E dopo qualche rinvio e l’attesa del comodo ponte del 12 ottobre (ottima idea quella di sottolineare il giorno della Hispanidad nell’anniversario della scoperta di Colombo; e io sono uno dei pochi che ha vissuto anche in Italia un 12 ottobre di vacanza scolastica, ma era …nel 1992, in occasione dei 500 anni!) eccoci pronti per la nostra prima escursione in terra di Marocco.

Con l’esperienza che hanno ormai da tempo i fratelli lasalliani, abbiamo deciso di lasciare la macchina vicino alla frontiera, passare a piedi e poi prendere il bus per andare fino alla città di Nador, il centro urbano più importante che si trova nei dintorni di Melilla. Con i suoi 150mila e oltre abitanti, le sue infrastrutture economiche, bancarie (è la terza piazza del Marocco, grazie alle rimesse dei migranti), minerarie (nei suoi pressi si trova il principale polo siderurgico nazionale, può ben considerarsi un “grande” centro. Si trova ai bordi di una grande laguna (il Marchica, che ancora risente dell’influsso spagnolo, visto che tutta la zona e la città stessa si sono sviluppate quando tutto questo territorio era protettorato spagnolo) e ospita un grande porto, sia per commercio che per il traffico di passeggeri. Sta vivendo una fase di rilancio e di progresso, sfruttando anche il territorio a profonda vocazione agricola. Insomma, ben più grande e imponente di Melilla, ma…

Ma dopo la nostra oretta tranquilla di trafila burocratica per entrare in Marocco (e non c’era nemmeno molta coda, di solito di ore ce ne vogliono almeno un paio) e dopo aver preso il bus (questo sì bello moderno e al passo coi tempi) poco a poco la realtà che ti si presenta lascia emergere tante differenze. A cominciare dai marciapiedi che ti obbligano a camminare con molta attenzione per non inciampare, alla segnaletica un po’ evanescente, alle insegne dei negozi molto naif, alle merci che strabordano sui marciapiedi, alle moschee affollate (era venerdì) con tanto di fedeli sui tappeti nelle zone antistanti l’ingresso… Ma per tutte queste cose la Sicilia mi ha sicuramente vaccinato 😉

La nostra però non era una visita turistica senza una meta precisa. A Nador abbiamo dei contatti molto stretti, tutti concentrati nella parrocchia dei gesuiti, che tra l’altro è l’unica parrocchia di tutta la città! Mi viene da pensare a Giugliano in Campania, che come abitanti è quasi equivalente! Una sola presenza cattolica che raccoglie la comunità dei Gesuiti e 2 altre comunità religiose femminili, quella delle Schiave della Bambina Immacolata, più note con il termine di Divina Infantita (povero me, mi ritornano le reminiscenze di Faletti con le sue Piccole Madri Addolorate del Beato Albergo del Viandante e del Pellegrino…), il gruppo più numeroso e poi le suore della carità (s.Vincenzo) che sono solo 2. Se ci metti che i gesuiti sono 2-3 i conti si fanno presto, una dozzina di religiosi in tutto. La chiesa cattolica è nel centro cittadino, presidiata costantemente dalla polizia, con una guardia e una automobile sempre presenti. A sancire l’ufficialità della presenza non manca il cartello che riserva almeno un parcheggio alla parrocchia. Ma basta leggere per comprendere che… Tra l’altro l’ingresso della chiesa è piuttosto defilato, due porte laterali, nessun ingresso centrale; aggiungi pure che il campanile c’è, ma in Marocco come in tutti i paesi musulmani è vietato l’uso delle campane!

Ma nemmeno questo mi sembra rilevante, il bello che ci attende è proprio dentro il sacro recinto che sembra così marginalizzato. Intorno alla chiesa si muovono infatti 2 realtà molto significative: il centro Baraka e l’ufficio diocesano per i migranti.

Il Centro Baraka mi ha subito fatto pensare al nostro Ciao siracusano, ma in un contesto ben diverso. Si rivolge soprattutto al mondo marocchino, in particolare alle donne ma non solo, svolge da anni un prezioso servizio di formazione e di orientamento lavorativo, offre corsi di alfabetizzazione, cucina, ristorazione, istruzione professionale (per elettricisti e idraulici), taglio e cucito, laboratori artistici, ceramica, informatica… si mantiene grazie a progetti internazionali e soprattutto grazie alle sovvenzioni e donazioni di grosse ONG spagnole, dalla Caritas a Mani Unite, dal centro sociale dei Gesuiti alla diocesi di Tangeri, a cui appartiene. Ovviamente conta su uno staff di operatori nutrito e numeroso, non solo su base volontaria, perché una simile macchina organizzativa ha bisogno di una stabilità istituzionale.

Oltre alle classi e alla formazione forniscono anche un pasto a circa 80 bambini al giorno e poi supportano questi bambini (quasi tutti a livello della primaria) con un rinforzo scolastico. Abbiamo curiosato un po’ nelle classi, insieme ad altri volontari di una ONG tedesca anche lei in visita (una cosa che capita spesso, ci dicono!), visitando i vari angoli di questa realtà, che. come dicevo, è tutta realizzata all’interno dello spazio della parrocchia. Insomma, immaginatevi una chiesetta al centro e sui due lati queste due realtà, perché non c’è solo il centro Baraka!

L’altra presenza è quella della Delegazione Diocesana per i Migranti (DDM) . Come ho già avuto modo di vedere in questo territorio marocchino non si “vedono” molti migranti come invece capita nella nostra Sicilia (e non solo a Siracusa); e questa assenza si avverte ancora di più con il dopo-pandemia; non ci sono sbarchi, non ci sono passaggi evidenti, la polizia e l’esercito marocchino svolgono molto bene il silente compito contenitivo assegnato dall’Europa. Ma qualcuno arriva comunque. Sui notiziari di Melilla era presente la notizia che durante il 2023 sono stati “fermati” 3000 migranti che hanno tentato di entrare in Europa a nuoto, fermati e gentilmente rispediti in Marrocco. Quindi un po’ di arrivi ci sono comunque.

In questo centro parrocchiale si fanno carico proprio di questa realtà, hanno messo a disposizione delle stanze, una decina, per una prima accoglienza di emergenza, uno sportello di aiuto legale, una presenza durante le ore del mattino, la possibilità di una doccia; così nel centro si incontrano numerose presenze di “passaggio”, famiglie o mamme con bambini piccoli. E tutta questa realtà viene portata avanti dalla comunità delle suore e da qualche volontario. Interessante ascoltare dalla voce diretta di chi vive questa esperienza quali sono gli snodi principali, le difficoltà, le sfide…

Ed è quello che abbiamo poi continuato anche dopo il pranzo. Per l’occasione erano presenti alcune suore messicane “di passaggio” e 3 novizie in fase di apprendimento della lingua (sembra paradossale, ma due novizie parlano il francese e una l’inglese, mentre la maestra delle novizie non conosce nessuna di queste lingue…); davanti a due spettacolari piatti di couscous e a una sfilata di dolci locali ci siamo davvero scambiati anche le rispettive esperienze.

Sembra proprio che proprio nelle periferie si riesca a realizzare e a respirare un’aria di chiesa più concreta e vitale; e non dipende certo dall’età, visto che a gestire le cose ci sono suore arzille di 80 e 92 anni! Anche in questo caso pensavo alle nostre inossidabili Fidelma ed Edoarda di Scampia. Quando la realtà gronda di emergenze, non è difficile tralasciare le cose meno essenziali e concentrarsi su quelle importanti.

Ci diceva padre ***, il gesuita che è parroco da non molto di questa realtà (in precedenza c’erano i francescani) che la domenica ci vuole poco a rendere viva la celebrazione. I numeri sono decisamente ridotti e l’assemblea si aggira di solito sulle 30-40 persone; ci si conosce tutti, la realtà è ben nota, le situazioni serie sono condivise da tutti perché in un modo o nell’altro si è tutti parte di questi vari progetti. L’intera diocesi di Tangeri conta 8 parrocchie, se guardo sul sito della diocesi di Siracusa trovo un elenco di oltre 40 parrocchie per restare leggeri… certo i numeri contano. Ma soprattutto le persone.

Al ritorno sr. Carmen (Figlie della Carità) ci dà uno strappo in macchina; lungo il percorso entra di straforo (ma lei conosce un po’ tutti qui e tutti la salutano, il velo della suora ha questo potere) in un resort con campo di golf e ville di alto livello, tutto pensato per i turisti stranieri, ma tutto praticamente vuoto (ci dice che il re ha quasi costretto ogni ministro a comprarsi uno di questi residence), sembra un paesaggio da favola e poco lontano c’è un’altra residenza lussuosa del Re, ma ci fa poi notare la presenza di diversi ragazzini, tra i 10 e i 15 anni, spesso seminascosti agli incroci, che aspetta o provano a salire su qualche camion nella speranza di riuscire ad eludere i controlli e giungere a Melilla. Praticamente non ci riesce nessuno; vivono qui in giro, da soli, spesso strafatti di colla e altre sostanze, lei ogni tanto porta qualcosa da mangiare… restiamo decisamente impressionati. Poi, prima di fermarci alla frontiera, ci fa vedere la “muraglia”, la grande recinzione, dalla parte marocchina. Una presenza costante di militari armati, in certi punti quasi ogni 25 m., ci mostrala zona del Barrio Chino, dove nel 2022 è avvenuto il massacro di numerosi migranti. In alcuni punti i due sbarramenti sono così vicini che si può parlare con le persone della zona opposta, ma solitamente c’è un ampio fossato che rende questa zona impenetrabile. Anche questa è Melilla, sull’altro lato di militari spagnoli non ne vedi neanche uno. Torniamo alla frontiera che, stranamente, è libera e velocissima da attraversare. Ultimo timbro sul passaporto ed eccoci di nuovo a casa. Giornata intensa di persone e di esperienze.

Solo qualche immagine di questa giornata a Nador in Marrocco, e molte foto riguardano il “passaggio” della frontiera a Melilla.

Processioni a Melilla…

Processioni a Melilla…

Giornata originale, quella di sabato scorso, 7 ottobre. Vuoi per la festa della Madonna, la “Vittoria” (e forse non conviene approfondire di quale vittoria si tratti, visto che si deve risalire a Lepanto e qui il buon prof. Barbero avrebbe da sturare pagine e pagine di approfondimenti…) vuoi per il tiepido autunno che qui mi sembra ormai la norma; non vedi quasi mai giornate splendide e serene, sempre un po’ infiocchettate da nubi, ma la temperatura è decisamente tiepida, ben più che primaverile. E allora anche il Comune di Melilla si sbizzarrisce in visite al patrimonio architettonico di questa città.

Melilla, dopo Barcellona, è la seconda città testimonial del “modernismo”, un qualcosa che potremmo rendere con il nostro liberty ma con qualche innesto alla Gaudi. Solo che di cose alla Gaudi qui a Melilla ce ne sono poche, forse solo una piazzetta con sedute policrome che ricordano il parco Guell. Ma di palazzi carini ce ne sono invece davvero molti, più di mille e sono concentrati quasi tutti nella zona nostra, poco sotto il collegio La Salle.

Per questo sabato scorso era prevista una visita drammatizzata al nostro quartiere, per mostrare i principali palazzi e le cose più interessanti. Mi aspettavo così una brava e compassata guida con il suo altoparlante, forse un ombrello perché tutti potessero individuarla facilmente e invece…

Invece quando arrivo nella Piazza di Spagna, il punto di partenza, già da lontano sento una banda in perfetto stile jazz, allegro e scoppiettante, poi intravedo un altissimo pupazzo allampanato e tutto intorno una corte di personaggi variamente agghindati, molti in stile belle époque. Tutt’intorno una folla divertita e colorata, famiglie coi bambini, single col cagnolino al guinzaglio, coppie di anziane turiste estasiate, giovani marocchini in monopattino che si appostano ai margini, tanta gente curiosa. E la presentazione è già iniziata, guidata da una Guendalina frizzante che esalta i dettagli architettonici delle opere e dalla sua amica Dorita rosso vestita, petulante e pettoruta che non vede l’ora di concludere il giro per mettere sotto i denti qualcosa di buono. Insomma, la visita è tutta all’insegna dell’allegria, della vivacità e dello scambio ironico tra i personaggi, che man mano aumentano, chiamando in gioco la zia, la suorina del collegio, la cinese dell’emporio, il viaggiatore… e ad ogni tappa la banda si riprende rumorosamente la scena mentre la folla che circonda questo circo ambulante, con calma si sposta fino alla successiva fermata.

Molto allegro e divertente, un modo gradevole di girare anche il naso all’insù per ammirare i palazzi, le vetrate, le cupole, il faro costruito su un condominio, le porte dell’antica sinagoga, gli archi arabeggianti, le vetrate imponenti.

L’altro lato della medagli si è invece manifestato nel pomeriggio. Per la festa del 7/10 era prevista la processione del Cautivo, il Cristo prigioniero, portato in giro dalla relativa cofradia. Qui a Melilla, come in tutta Andalucia, il legame con le confraternite religiose è forte ed evidente, un elemento che connota le tradizione e la cultura, difficile per noi italiani avvertire con la medesima intensità questo senso di appartenenza ad un gruppo così marcatamente definito. Nemmeno le tifoserie calcistiche possono avvicinarsi a questa idea.

Che però rimane strettamente ancorata all’ambito religioso e probabilmente continua a marcarlo in modo fin troppo evidente. L’immagine del Cristo prigioniero mi ricordava molto il simulacro di s.Lucia, con la sua imponenza e sfarzo dell’argento profuso a piene mani. Una “macchina” imponente che viene mossa da decine e decine di portatori, debitamente coordinati per una coreografia dove nulla è lasciato al caso

Solo per fare la curva ad angolo retto richiede almeno 2 minuti di minuziosi piccoli passi, ondeggiature, calibrati ondeggi… insomma, uno spettacolo.

Facendo quasi parte del clero mi sono ritrovato con fr. Eulalio in prima fila, fianco a fianco con le altre congregazioni di suore presenti a Melilla (noi siamo l’unico gruppo maschile!), proprio davanti alla macchina che impediva qualunque visione, meglio allora spostarsi nelle sedie libere, che erano comunque tante…

Poi inizia la processione, in bell’ordine; noi accompagnavamo un bel gruppetto di bambini della primaria, con la loro semplice divisa, perché la scuola La Salle è una istituzione che ha più di 100 anni di presenza nella città; dietro di noi le ragazze del collegio delle suore, anche loro nella classica divisa, gonna scura e camicia bianca. Mi sembrava un tuffo in qualche deja vu alla Almodovar. A seguire altri piccoli gruppi, poi l’imponente macchina e il clero (a Melilla i preti e le parrocchie sono solo 4, si fa presto a conoscerli tutti, uno di loro è il vicario episcopale, visto che la diocesi di riferimento è Malaga) e quindi una banda davvero imponente per numero e potenza sonora. Poi, dietro, il nulla.

Piccola pausa, qualche passetto, la macchina si ferma per dare un momento di sosta ai portatori e così via, percorrendo l’Avenida centrale, fiancheggiata da tanti cittadini, ospiti, turisti, curiosi… Per quasi un’ora partecipiamo all’evento, poi anche i bambini possono tornare con le famiglie e il resto della processione continua il suo percorso, a suon di musica solenne.

Nell’insieme un vago sentore di parata, vetrina ed esibizione.
Mi piace ricordare quello che succede alla sfilata dell’infiorata di Genzano, il giorno dopo la processione, quando lo splendido mantello di fiori viene allegramente spazzato via dalla corsa dei bambini spensierati e divertiti.
E’ vero, abbiamo bisogno di riti ma quando l’acqua fresca si scalda troppo al sole, è inevitabile che la coca-cola diventi l’unico rimedio.

Già che ci siamo, ecco come presentano questi eventi la stampa locale:

Non potevano quindi mancare due immagini di queste diverse “processioni” per Melilla

E la vita Caterina, lo sai…

E la vita Caterina, lo sai…

E la vita Caterina, lo sai
Non è comoda per nessuno…

Chissà in quanti si ricorderanno, da questa striminzita citazione di De Gregori, la canzone intera, una tenera ballata del 1982 (noi si era da quelle parti, a Roma); poi succede che nella vita alcune frasi, alcune melodie, ritornino come sottofondo, stuzzicate ad esempio da un semplice nome. Caterina, in questo caso.

Ho terminato da poco il testo Il Sorriso di Caterina, di Carlo Vecce, docente di letteratura italiana presso l’Orientale di Napoli, su una possibile ricostruzione dell’albero genealogico di Leonardo da Vinci. In pratica la “scoperta” della possibile madre. Ero rimasto colpito da un articolo in prima pagina sul domenicale de Il Sole 24 ore (uno dei miei hobby domenicali, anche qui a Melilla, grazie al web) che presentava questo libro, nato dalla scoperta di un documento da cui traspare la notizia che la madre del grande genio rinascimentale probabilmente era una schiava proveniente dalle zone selvagge intorno al mar Nero (la Circassia).

Stimolato da questo spunto mi sono imbarcato nella lettura, tra l’altro interessante per il linguaggio utilizzato, un misto di italiano scorrevole infarcito di (tanti, a volte troppi) termini tardomedievali, molti desunti dalle pratiche mercantili o notarili. Altra curiosità è la voce narrante, che cambia in pratica ad ogni capitolo (e non sono pochi!), dando così la possibilità all’autore di toccare corde e modalità sempre diverse, anche se il risultato sicuramente non è così definito, le voci sono molto omogenee, tra l’altro tutte al maschile, anche se i personaggi femminili sono numerosi nel libro. Passano così in rassegna abili mercanti, ex-pirati, commercianti, nobili decaduti, notai (il padre di Leonardo), amici facoltosi, gente umilissima… uno spaccato di quella società gravida dell’uomo nuovo del rinascimento.

A dire il vero la storia è molto romanzata e la ricostruzione che ne fa l’autore è certamente molto personale, anche se suffragata da diverse prove. Ma è come ricomporre un puzzle con pochi pezzi e nel dubbio ritenerlo un quadro ormai completo; in rete non è difficile, ad esempio, trovare altre recensioni ben più critiche e documentate di quanto un semplice lettore potrebbe dedurre dalla pura lettura.
Ma con Leonardo, fantasticare non è di certo un grave misfatto, anzi…

La trama potrebbe essere semplice, una spedizione di soldati alla ricerca di schiavi e conquiste raggiunge le zone della Circassia, intercetta un drappello di soldati guidati dal coraggioso capo locale, un certo Jacob che si era portato appresso anche la figliola poco più che undicenne e camuffata da maschietto. Il padre viene ucciso e il giovane ragazzo viene catturato, inizia così una lunga odissea che la vedrà percorrere un lungo itinerario mercantile, dalla Tana (la zona di giurisdizione veneziana e genovese del Mar Nero) a Costantinopoli, poi Venezia, la laguna e infine le zone vicino a Firenze, Vinci, per concludere.

Ad ogni capitolo il narratore è anche la persona incaricata o il padrone o il benefattore di questa giovane fanciulla, strappata ad un mondo tra il magico e l’agreste, il selvaggio e l’arcaico. Ha già un nome, Caterina, un piccolo anello dono del padre (di quelli provenienti in gran quantità dal monastero di s. Caterina in Terra Santa, a quell’epoca molto diffusi), probabilmente è anche battezzata, ma è ormai destinata al ruolo di “schiava”, una cosa umana che può passare di proprietà come un mobile o un terreno.

Difficoltà, problemi economici, piccoli e grandi soprusi, intrecciati agli eventi dell’epoca, sempre presenti sullo sfondo. La storia appare molto ben documentata, la narrazione è accurata e stracolma di dettagli, elenchi, riferimenti normativi alla legislazione dell’epoca… l’erudizione e la tecnica non mancano di certo al nostro autore!

Il penultimo capitolo vede scendere in campo nientemeno che il figlio, Leonardo in persona (e non è certo facile mettersi nei suoi panni!) che intesse con questa donna un rapporto sicuramente forte e struggente. Non scendo ovviamente in altri particolari, oltre a quel sorriso che rimanda alla Gioconda e che nell’invenzione dell’autore nasconde forse il ricordo felice della madre.

Quello che mi ha colpito di più è invece la riflessione finale dell’autore, che riletta alla luce dei tempi che stiamo vivendo trovo ampiamente condivisibile e illuminante, nonostante un tono quasi omiletico. E’ un’accorato e forte richiamo alla necessità dell’accoglienza: riporto direttamente solo un passaggio:

 […]  è la gloria più bella di questo nostro meraviglioso Paese, di questa penisola slanciata nel Mediterraneo come un immenso ponte di popoli, culture, civiltà, lingue e arti, che senza sosta nei millenni si sono incontrate e invase e mescolate, da Nord a Sud e da Oriente a Occidente, dall’Europa all’Africa e viceversa, terre e isole naviganti, migranti che arrivano e partono, assetati di vita e di conoscenza. La civiltà italiana non esisterebbe se qualcuno avesse chiuso i nostri porti.  […]  


Ovviamente sono molto di parte (la stessa parte con la quale mi ritrovo), ma penso di essere in buona compagnia.

4 righe da Melilla

4 righe da Melilla

Un po’ per abitudine e quasi per deformazione (anche se poco professionale), mettere nero su bianco quello che si vive e si incontra per me è sempre un modo concreto di riflettere sulle cose, rivedere quanto incontrato, ragionare e, in fin dei conti, mettere legna in cascina.

Anche se viviamo nell’epoca dell’effimero e del rapidamente dimenticato, dei social e dei volontari isolati, ripercorrere con un pizzico di calma quanto appena vissuto può ancora essere significativo. Tra una cosa e l’altra saranno più di 20 anni che provo a farlo, con una regolarità decisamente bizzarra e approssimativa, ma sui tempi e sui gusti, ormai siamo tutti tolleranti.

Sarebbe bello riuscire ad alzarsi presto al mattino, come fanno alcuni, per iniziare con una riflessione scritta, qualche ricordo, qualche buon proposito. Nullo die sine linea ci ripetevano una volta i prof di italiano e soprattutto di latino. In effetti l’esercizio aiuta.
Va ancora bene quando ci si alza pimpanti al mattino, si inforca la bici e se non si hanno impegni, si fa presto a raggiungere qualche tratto della costa di Melilla, che ti fa pensare con calma: “l’Europa è da quell’altra parte…”

Qualche mese fa ho mostrato ad Happiness, una volenterosa studentessa che si stava preparando alla maturità, come si poteva facilmente barare per scrivere un testo. Vai su Chat-GPT e chiedi di scrivere un pezzo di 40-50 righe su un tema ben definito, chessoio, la produzione letteraria di Vittorini. In meno di mezzo minuto ti viene sciorinato sullo schermo un testo che un ragazzo delle superiori forse potrebbe racimolare a fatica in un paio di ore, sbirciando su libri e Wikipedia. Quasi mi divertivo ad osservare lo sguardo tra lo stupito e l’incredulo della ragazza, che si preparava a copiare e poi incollare su qualche suo compito. Ma da buon maestro ho chiuso subito la scheda per dirle che oggi è ancora meglio insegnare a pescare, piuttosto che regalare pesci alla gente. Per un po’ ci crederanno ancora.
O forse, tra non molto, potrebbe essere difficile trovare un pescatore capace di trasmettere la sua disciplina a qualcuno.

E proprio in questi giorni, qui a Melilla, cercavo di aiutare la piccola Jihan alle prese con un testo: sarà la scarsa preparazione, le difficoltà familiari di chi vive in una situazione precaria, ma un testo così frammentato, con numerose parole latitanti, pensieri inconcludenti e termini farciti di errori mi faceva pensare che proprio la scrittura realizza quel miracolo che ci aiuta a riflettere in modo più umano sulle cose.

Si arriva persino al punto di non comprendere cosa manca, dove sono gli sbagli, dove si blocca la comunicazione. Per accorgersi di queste difficoltà basta far leggere ad alta voce: ti accorgi subito se la persona ha per lo meno la situazione in pugno, se comprende il testo oppure…

Ma come al solito sto divagando: con queste righe volevo solo informare i 3-4 amici lettori di queste pagine che se gli fa piacere possono sorbirsi anche un piccolo supplemento. Ho preparato infatti una piccola cronaca di questa mia nuova esperienza. E’ possibile leggere questo primo numero qui, se poi qualcuno desidera riceverla direttamente nella mail, basta che me lo comunichi (al solito indirizzo gbanaudi@maristi.it).

Non di soli social

Non di soli social

Ogni tanto è saggio soffermarsi sulla cornice delle cose. Dedicare tempo e passione ai contenuti è fondamentale, ma senza dimenticare che spesso è il contesto a garantire la comunicazione e la visibilità.

Seguo il web da quando è nato, almeno qui in Italia, ed ho sempre cercato di mantenere uno sguardo attento a tutte le dinamiche comunicative che si appoggiano alle ormai tante strutture e metastrutture realizzate mediante internet. Da quando la parola stessa, internet, non era ancora ben definita ed era anzi persino fluida e poco stabile. Ma le disquisizioni di gender non erano ancora argomento dibattuto a quei tempi.

Oggi i paradigmi della comunicazione si concentrano in modo evidente sui social, alcuni strumenti della rete si sono ampiamente evoluti e altri hanno subito modifiche notevoli. Un tempo sul cellulare si amavano alla follia gli SMS, oggi retaggio quasi esclusivo delle notifiche OTP; un tempo l’account Gmail era una sorta di consociazione carbonara, a cui si poteva accedere solo mediante inviti ricevuti da altri fortunati.

Alcuni social hanno vissuto un’esplosione incredibile, Facebook in primo luogo, tanto che sembra quasi un azzardo affermare che “non sono su FB” oppure che “mi interessa poco”. La sua facilità d’uso e la pervasività dei messaggi che ne sostengono la stessa struttura sono ben evidenti. Perché come diceva (probabilmente) Kafka, “un cretino è un cretino, due cretini sono due cretini, ma diecimila cretini sono un partito politico”. E su FB i numeri degli iscritti (partecipanti?) superano i 2 miliardi. Ma preferisco tenere nel mio piccolo orticello queste considerazioni, prima di regalarle (o relegarle?) al grande pentolone dei media mainstream.

Ed è curioso che ancora oggi, se svolgo una ricerca testuale tra le mie foto, se scrivo semplicemente web mi si piazzano in pole-position le tante ragnatele che, rarefatte, compaioni nei miei album di foto 🙂

Oggi sembra normale utilizzare FB come vetrina indispensabile per le numerose anteprime che si svolgono, bacheca generale per raggiungere un pubblico ben più vasto. Quando parliamo dei nostri “amici” molto spesso diamo per scontato che corrispondano almeno in parte ai nostri contatti su FB. Ma davvero riusciamo a considerare amici le centinaia di persone che ci hanno chiesto “l’amicizia”?

Qualcosa di analogo lo vediamo replicarsi su Instagram (che è sempre di Meta, il grande ombrello sotto il quale gravita FB). E forse, fino a qualche tempo fa, si poteva dire lo stesso di Twitter, mentre ora stiamo assistendo al rapido suicidio di una piattaforma diffusissima e snella; da quando ha cambiato nome e strategia si assiste ad un discreto guazzabuglio di opinioni e conseguenze. Durerà? Potrebbe chiudere? Che fine faranno tutti i contenuti e le energie dispiegate su questo strumento negli anni passati? Dove finirà la conoscenza versata come olocausto a questi media?

Ma i tempi cambiano, e gli anni, effettivamente, stanno passando e le cose cambiano così in fretta nel mondo di Internet da rendere quasi difficile la stratificazione dei comportamenti, degli strumenti e dei modelli in un immaginario collettivo chiaro e condiviso. Sembra quasi che quanto abbiamo appreso agli inizi sia ormai non solo superato, ma inutile, quasi dannoso. Sapendo che tutto cambia velocemente sembra quasi inutile conservare memoria delle pratiche ormai superate o in via di trasformazione.

Per noi che abbiamo vissuto questa epoca di guado, dall’analogico al digitale, dalla macchina da scrivere al PC, dai post-it a Chat-GPT il percorso sembra se non chiaro almeno evidente. Per chi arriva invece oggi che senso potrebbe avere dedicare tempo a questa archeologia post-industriale?

Di solito scrivo queste cose per rifletterci con più calma, senza nessuno scopo pubblico; in un certo senso ho già dato, nei diversi anni in cui pubblicavo periodicamente riflessioni e brevi pezzi sul ruolo di Internet nel nostro mutevole mondo, ma ho trovato interessante notare che se scrivevo qualche post su questo piccolo ed insignificante blog, il traffico generato era decisamente ridicolo: un paio di accaniti lettori, più amici che lettori, e poco più.

Ultimamente ho provato a segnalare la scrittura di un post su FB e dopo nemmeno una giornata, l’effetto leva era più che evidente. I 5 lettori di manzoniana memoria si moltiplicavano per 10, se non per 20. Insomma, è la grancassa che spesso serve per alzare il volume delle informazioni. Anche queste righe, le ho pubblicate la mattina del 12 settembre e alla mattina dopo le visualizzazioni erano… solo 2 (devo avere un fratello molto attento e fedele ;-). Il giorno dopo ho messo un post su FB e la sera del 13 le visualizzazioni erano: 44. Evidentemente qualcosa è cambiato…
Mi viene quasi da pensare alla burla operata in Belgio pochi giorni fa, in occasione di un prestigioso premio vinicolo, avevano travasato un tavernello qualsiasi (che comunque è più dignitoso di tanti altri vini sedicenti doc) in una bottiglia stellata e … hanno vinto il primo premio.

Ma come spesso affermo, i social passano mentre i siti rimangono. Da anni seguo e gestisco con distratta attenzione alcune pagine web. Non sono più i tempi d’oro in cui avere una pagina web col proprio dominio era una sorta di status symbol e non è più nemmeno immaginabile costruire in modo artigianale qualcosa del genere. Le prime presenze sul web che avevo realizzato modificando i primi modelli in html erano certamente spartane e poco attraenti, ma sicuramente la finalità comunicativa era abbastanza facile da raggiungere. Il focus era sempre sulle notizie, sui contenuti, lo strumento era essenzialmente …strumento, poco più.

Oggi il paradigma è quasi rovesciato e conta soprattutto l’aspetto, il feeling, l’appeal grafico… La mia esperienza si misurava agli inizi con la richiesta di semplici siti scolastici, di qualche associazione (la prima versione del sito Agidae è del giugno del 1999, poco prima quella del sito Maristi.it), pagine di società al primo approdo sul web; a corollario di queste esperienze quasi da pioniere era sempre viva l’attenzione alle derive didattiche di tutto questo, già iniziata nel lontano 1985 in collaborazione con il centro ITD del Cnr di Genova e per lungo tempo ho continuato su questa scia, divulgando e mettendo a disposizione materiali, software e informazioni su questo ambito, percorso che ho poi continuato per numerosi anni collaborando con la rivista Tuttoscuola.

Erano i tempi in cui nemmeno i giornali avevano una presenza ben definita sul web (sto parlando dei primi anni ’90, ovviamente, roba del secolo scorso!), quando i bbs erano ancora la punta di diamante della nuova tecnologia e le chat delle poche realtà presenti (Fidonet, MC, Agorà) raccoglievano i primi drappelli dei cultori della materia. Persone che poi sono approdate nei luoghi nevralgici del web nascente, ricordo un amministratore di un bbs (sysop, come si diceva allor) che poi è diventato l’esperto di sicurezza informatica del Vaticano, o il giornalista appassionato che poi ha dato il primo vero impulso al giornale più attento a questa nuova frontiera, Repubblica. Tempi andati, che sono stati però la base di quelli attuali e ogni percorso visto in retrospettiva svela molti aspetti spesso dimenticati.

Interessante, ogni tanto (almeno per me), riprendere considerazioni di questo tipo.