Sperare in un tempo gentile…

Sperare in un tempo gentile…

Il titolo sembra la reclame che tempo fa impazzava sulle radio, per reclamizzare una catena di supermarket che, oltre alla convenienza, puntavano sul fatto di essere “gentili”. Una virtù in via di estinzione, a giudicare dalla cronaca quotidiana. Forse perché, come le cose preziose, sta diventando sempre più rara.

Ho letto il libro senza informarmi troppo sul contenuto e ancor meno sull’autrice, Milena Agus. Sarà che la Sardegna sono riuscito a sbirciarla una volta sola, così ogni tanto tento incursioni almeno letterarie. Ma stavo seguendo il filono delle esperienze locali sui migranti e questa mi sembrava interessante.

Il racconto si snoda in modo gradevole, anche se non è dato di capire se alla radice della vicenda narrata ci sia uno sfondo di realtà. I fatti sono semplici: un gruppo di migranti giunge in una sperduta località sarda, una di quelle non toccate dalla fortuna dei bilionaire e delle calette di sabbia candida o da qualche altro orpello turistico. Un piccolo paese che si sta lentamente spopolando, figli non ne nascono più, le pecore e le coltivazioni locali sembrano ormai in definitivo declino. In questo paese sembrano essere rimaste solo più i vecchi, soprattutto le donne, e poche altre presenze. Nessun giovane. E arriva questa comitiva sbandata di migranti, in gran parte africani, accompagnati da alcuni volontari italiani. Conoscendo un po’ la realtà dei fatti sembra difficile poter collocare in concreto una simile avventura, ma il pretesto per iniziare a presentare le possibili reazioni di persone è plausibile.

La narrazione è quasi totalmente al femminile, sono le donne del paese, ormai tutte anziane, che discutono, parlano, si interrogano su questa ulteriore disgrazia capitata al paese. Un manipolo inutile di umanità precipitata nel posto sbagliato e nel momento meno opportuno.

Le prospettive di inserimento sembrano nulle, le ipotesi di integrazione ancora minori. Ma la presenza stessa di questa realtà obbliga le persone a modificare le proprie abitudini, a chiedersi almeno cosa fare, come reagire, in pratica come difendersi da questo assalto.

Ma poi emerge l’umanità delle persone, di queste donne dai mariti quasi assenti, dai figli lontani. In un modo o nell’altro si deve fare qualcosa, ci si mette d’accordo, si superano rivalità allenate dal tempo. Che sia per il pranzo o per l’ospitalità, qualcosa bisogna fare. Le donne del paese iniziano a cercare almeno piccoli accomodamenti, qualche soluzione per questo gruppo abbandonato quasi a se stesso. Il gruppo dei migranti va a vivere in un casolare semiabbandonato, le istituzioni pubbliche sembrano praticamente inesistenti. Nel testo compare a volte il sindaco, ma è del paese vicino, perché il fulcro della vicenda è talmente ridotto male che il comune è stato accorpato ad un altro. A volte fa la sua presenza un prete, abbastanza sgangherato e in odore di eresia new-age, ma tutto sommato simpatico.

I volontari che accompagnano questi migranti sembrano una accozzaglia variegata di persone con storie al limite dell’improbabile, il docente un po’ frustrato, l’ingegnere con sogni utopici, la studentessa rimasta affascinata dal docente e al quale vorrebbe dichiarare il suo amore, un ancor più fortuito giovane lavoratore che lavorava in un sexy-shop del capoluogo, ma che si rivela alla fine il personaggio più sensato e operativo. Insomma, una band un po’ onirica.

Si delineano i vari profili dei migranti, con le loro storie, la loro umanità, i loro tanti problemi e il modo comunque vitale di affrontare queste tragedi, mentre le comari del paesino si accorgono, pagina dopo pagina, di ricevere da questi sfortunati il dono di saper apprezzare quanto invece loro possiedono già. Sono le cose semplici a fare da traino, dal mangiare condiviso ai vestiti da recuperare. E’ forse un invito dell’autrice a vedere comunque questa congiuntura del tempo come un richiamo a qualcosa di più essenziale e profondo, che potrebbe aiutare anche la nostra Italia a recuperare brandelli di coraggio e di umanità per essere meno superficiale, avvilita e, in fin dei conti, rassegnata.

Lo stile è gradevole, leggero e il romanzo tiene, pur nella sua fragilità. La conclusione, prevedibile, è che questo manipolo di personaggi viene ulteriormente spostato e destinato ad altri luoghi. Ma intanto il loro stimolo alla piccola comunità del paese ha forse innescato un processo di rinascita. Un buon augurio.

E vai con Astrazeneca…

E vai con Astrazeneca…

8 pagine di modulistica da compilare e controllare, firme e controfirme, ma anche questa adesso è fatta. Come volontario della CRI avevo inoltrato la domanda per il vaccino alla fine di dicembre 2020, visto che c’era questa concreta possibilità. C’è voluto del tempo, ma quando non puoi agire diversamente è saggio aspettare… E da ieri sono vaccinato anch’io.

Domenica pomeriggio ero andato per un servizio alla CRI, mi aspettavo la solita kermesse per i tamponi, che ormai conoscevo bene, presso la Pizzuta (non lontano dall’Ospedale Rizza di Siracusa).

Invece, ero quasi sul punto di mandare un messaggio per chiedere “ma dove siete?” perché vedevo giusto un po’ di gente davanti all’ufficio della Farmacia dell’Ospedale, ma nessuna macchina in file lungo il viale. Poi scorgo l’inequivocabile divisa rossa fiammante e capisco che gli altri amici sono lì. Entro e nel giro di pochi istanti mi ritrovo con una tessera sanitaria e un foglio da riconsegnare a una persona. Full immersion immediata per dare una mano nella logistica. Nel giro di pochi minuti Maria mi spiega cosa dobbiamo fare: restituire tessera e modulo con la data per la seconda somministrazione a tutte le persone che hanno appena ricevuto il vaccino e stanno terminando i 15 minuti precauzionali di attesa.

Ci sono 2 stanze dove si effettuano i vaccini, con un dottore ciascuna e altre persone che provvedono al disbrigo e controllo dei documenti. Un altro volontario crocerossino è all’ingresso per smistare gli arrivi e assegnare il numero di pratica, altre 2 sono impegnate nel controllo delle prenotazioni. Varie volte i dottori ci guardano soddisfatti, dicendo: “Se non c’eravate voi tutta questa gente non saremmo riuscita a vaccinarla”. E in effetti la situazione è abbastanza pittoresca, la stanza di attesa è piccolina, il va e vieni di persone molto serrato. Ma ci si riesce tranquillamente. Io faccio la spola con la stampante che riceve i moduli dalle due postazioni di vaccinazione; per ogni persona vengono stampate 3 pagine (la pila di fogli che stiamo alimentando cresce implacabilmente! altro che ufficio senza carta!).

Scopro che in mattinata il Presidente della Reg.Sicilia è passato proprio a Siracusa per inaugurare il nuovo centro Vaccinale, presso l’Urban Center. Nella sua prima giornata operativa verranno vaccinati 49 persone. Qui alla Pizzuta, invece, a fine giornata faremo i conti e scopriremo che sono state assicurate col vaccino quasi trecento cittadini, 285, per l’esattezza. Decisamente un buon ritmo.

La ciliegina sulla torta arriverà alla fine del servizio, quando ricevo il mesaggio che domani posso andare anch’io per la vaccinazione, presso l’Urban Center. Non ci penso due volte e così poco dopo le 8 e 30 sono già in fila, proprio con gli altri amici della Croce Rossa. L’allestimento è ancora in fase di rodaggio e ci fa piacere essere un po’ delle “cavie” per poter fornire anche qualche suggerimento (in effetti come primo impatto non è facile capire il percorso ottimale da suggerire alle persone, per non creare assembramenti e per facilitare il deflusso). In questa nuova sede le postazioni per la vaccinazione sono più di quindici, immagino che a pieno regime si potranno superare tranquillamente le 1000 persone al giorno.

E oltre all’annuncio di questa nuova sistemazione di Via Malta, sede dell’Urban Center, leggo da poco che è già possibile prenotarsi per la vaccinazione; al momento riservata agli over 80, ma intanto si comincia anche qui. E leggendo con timore l’aumento dei contagi, la curva ascendente delle varianti e la difficoltà nel gestire i tanti nuovi ricoveri, questa mi sembra l’unica strada da percorrere.

Ho già segnato la data per il richiamo, che per Astrazeneca, il vaccino che ho ricevuto, è previsto dopo un paio di mesi. Dovrò infatti andare a fine maggio, il giorno 30. Ma sapendo che già la prima dose è un buon viatico, posso considerarmi già abbastanza tranquillo. Oggi sono soltanto un po’ indolenzito, come dopo un allenamento intenso e sapere che altri amici hanno invece avuto conseguenze un po’ più marcate, febbre, spossatezza e altro, mi fa sentire anche un pizzico fortunato.

#pontedicorpi

#pontedicorpi

Si fa presto a dimenticare le immagini, le notizie e i reportage di quello che si pensava impensabile. Nel cuore della nostra Europa, a pochi passi dall’Italia, sulla ormai famigerata rotta dei Balcani, scene che vorremmo relegare ai gulag o ai campi di sterminio. E invece sono ancora con noi.

Con il diluvio di notizie e altri problemi che ci attanagliano, dai vaccini alle zone rosse incombenti, si fa persino presto a cambiare canale e togliere dalla mente queste situazioni. Ce lo possiamo permettere perché nonostante i problemi e le tragedie nostrane, il nostro tenore di vita, la quotidianità, è ancora intessuta di normale benessere. Ma tra il voltare lo sguardo e puntare al prossimo intrattenimento c’è ancora spazio per la memoria e l ‘ascolto.

Qui a Siracusa, con diverse associazioni, abbiamo accolto anche noi l’invito di Accoglierete per realizzare un piccolo evento nella nostra città. Prima un semplice tam tam sui social, poi in settimana anche il semplice realizzare qualche striscione, organizzarsi per essere presenti come piccolo stimolo, o pungolo, per le persone che lentamente stanno ricominciando ad assumere ritmi di normalità. Anche a Siracusa i fine settimana cominciano a sembrare meno desolati e vuoti, gruppi di persone, turisti, iniziano a muoversi e a sciamare per il centro di questa cittadina unica.

Ci siamo ritrovati nella sede del Ciao, qualche giorno fa, a preparare lo slogan che avrebbe fatto da orizzonte. Facile dare una piccola mano per colorare le scritte, così, tanto per ritrovarsi con persone dalle origini più disparate, un’artista tedesca, una belga, la nostra Maria di Avola che, con la scusa di essere anche docente di arte presso la scuola media, ha facilitato a matita il lavoro. Una scritta semplice, liberate le frontiere, contornato da quel filo spinato che sembra così di moda oggi tra un confine e una legislazione in cui dovremmo sempre venire per primi noi, chiunque siamo, purché non gli altri. E tra una pennellata e l’altra vanno anche i discorsi, le parole, lo scambio di idee.

Come se non bastasse sta ritornando, come ogni stagione, anche il problema dei lavoratori migranti di Cassibile, che causeranno anche quest’anno interminabili discussioni, incontri, tentativi di regolarizzare questa incredibile situazione. Così le coperte che si volevano utilizzare come simbolo vengono presto dirottate in questa più urgente necessità, perché a poche settimane dall’inizio della raccolta nei campi, il freddo è ancora intenso, anche qui dove le temperature sono decisamente più miti.

Finalmente, questo sabato, dalle ore 12 in poi, si è realizzato il semplice evento. Non eravamo folla, ma nemmeno il lievito ha bisogno di grandi numeri. Sulla spianata vicina alla Fonte Aretusa, una delle zone di più forte attrazione per i turisti, ci siamo disposti, con la giusta distanza, per ascoltare la motivazione di questo piccolo raduno. Cercare di realizzare un ponte simbolico per denunciare le continue violenze e i respingimenti di cui sono vittime le persone che tentano di raggiungere un luogo in cui poter vivere con dignità. Insomma, dare ali a questa farfalla per librarsi oltre il filo spinato.

Sembra quasi irreale leggere, come abbiamo letto, le notizie dell’indagine nei confronti delle persone che a Trieste si davano da fare per alleviare la situazione dei migranti che riuscivano a varcare i confini. L’accusa è nientemeno che di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Mi viene quasi da chiedermi se non mi stia spostando pericolosamente anch’io su questa china assurda, tutte le volte che devo trattare per qualche forma di aiuto con qualche migrante coi documenti non in regola… E se penso che quel pericoloso attivista di Trieste, Gian Andrea Franchi, ha la veneranda età di 84 anni… penso con un pizzico di sollievo che, se gli anni passano, non è detto che ci si spenga in modo automatico e si diventi insensibili.

Questo momento condiviso, l’ascolto di alcuni testi evocativi, il sentirsi convocati per un rigurgito di umanità, con il mare di fronte, sotto un sole che forse nei Balcani, adesso, se lo possono solo sognare, è stato un piccolo gesto di responsabilità, una sorta di preghiera laica (ma non sono forte nelle nette separazioni tra laico e religioso) per ricordarci le cose importanti. Da ricordare e scolpire forte nel cuore, come le parole di Prino Levi, lo shemà di cui la nostra cultura dovrebbe fregiarsi con più frequenza.

E se qualcuno volesse approfondire l ‘argomento, ecco un dossier interessante su La rotta balcanica (da Altreconomia)

Ecco nell’album alcune foto dei preparativi e dell’evento
#unpontedicorpi vissuto oggi, 6 marzo 2021, a Siracusa

Un passo dopo l’altro…

Un passo dopo l’altro…

Nel titolo c’è già molto: Un passo dopo l’altro: viaggio nell’Italia che resiste nonostante tutto. L’autore è Lorenzo Tosa, fino a poco fa un illustre sconosciuto per il sottoscritto, per poi scoprire che la sua presenza sui social è decisamente “tanta roba”, più di altri personaggi che fanno spola continua su tv e social frizzanti. Non sono un habituè della sopravvivenza social (nel senso che spesso è decisamente effimera), ma preferisco che abbiano un ruolo e una rilevanza in questo campo persone con valori e buon senso in testa. Mi sembra che in questo caso ci siamo, le attese e le ansie dell’autore sono davvero condivisibili.

Il libro invece mi ha fatto l’effetto di una maionese un po’ aspra, con tanti ingredienti ancora da amalgamare, qualcuno anche poco funzionale al gusto principale, che comunque si avverte da subito, cioè l’accoglienza, la tolleranza, l’apertura alle persone in quanto persone, il condividere della natura umana il fatto che siamo davvero tutti nella stessa barca. Non si tratta propriamente di un libro sui migranti (un settore in costante crescita) ma le storie raccontate nel testo lasciano trasparire in filigrana questa attenzione, come una traccia costante e pervasiva.

I capitoli sono apparentemente slegati, si inizia con i personaggi di Luciana e Liliana, poi si passa a Mimmo Lucano, dopo entrano in gioco altre figure, una calciatrice che ha fatto finalmente coming out, mixate con i viaggiatori del medesimo scompartimento del treno che l’autore ha preso, forse da Genova, per raggiungere la Calabria e incontrare il paese di Riace. Una sorta di viaggio nel profondo sud alla ricerca delle persone che resistono ad un certo degrado sociale e all’andazzo un po’ diffuso che attanaglia l’Italia di oggi, spesso appiattita su stereotipi ricorrenti, come quelli sui migranti che bisogna aiutarli a casa loro e che prima vengono le nostre esigenze di italiani e via saltando. Ogni capitolo scivola quasi da un personaggio ad un altro e solo dopo metà libro si iniziano a tirare con più logica le fila del discorso, evidenziando i protagonisti principali del testo, che pian pano si rivela più unitario e comprensibile.

Lo stile dell’autore, giustamente, non si discute, ma una lettura frazionata, come spesso ci capita di fare oggi, con i tempi sbrindellati e frettolosi, mal si adatta a questo testo, ci vorrebbe un tempo calmo per leggere attentamente i vari profili. Perché la storia che si dipana e le storie che vengono raccontate meritano decisamente una lettura attenta e una riflessione successiva. Basterebbe la storia di Luciana e Liliana, deportate ad Auschwitz quando erano appena adolescenti, la loro caparbia sopravvivenza nella follia dello sterminio e il lento recupero dopo la liberazione.

Il finale è forse un invito a prendere posizione, ad accompagnarsi a queste persone che si impegnano concretamente per una società più accogliente e aperta, un deciso invito alla speranza e ad una reazione concreta. Basterebbe questo a consigliarne la lettura.

Un pizzico di sale

Un pizzico di sale

Quando l’anno scorso sono passato dalle saline di Trapani non pensavo proprio che un ambiente simile ci fosse anche a Siracusa. A dire il vero qualche cartello stradale, un po’ malconcio, ogni tanto l’avevo notato, lungo la strada Elorina che costeggia il mare a sud della città, ma le strade che andavano in quella direzione mi sembravano poco attraenti da esplorare. Ne avevo “assaggiata” una vicino alla foce del Ciane, ma dopo pochi metri a piedi, nella boscaglia fitta, il sentiero diventava impraticabile. Passare dalla zona opposta mi sembrava poco fattibile, ma… una prova ci può sempre stare.

A fine gennaio, sempre in bici, ho provato quindi a saggiare il terreno, passando proprio vicino ad un rimasuglio del faro Caderini (che a dire il vero è ben conservato, chiuso, intangibile e silenzioso), lasciando la bici vicino al passaggio semi abusivo che introduce nella zona delle saline. Ma a dire il vero non si coglie un granché di quello che poteva essere l’impianto originario, ormai abbandonato da anni. L’unico itinerario era costeggiando la riva, invasa da rifiuti, tronchi, macerie, un sentiero poco invitante. E’ comunque un punto di osservazione molto piacevole per cogliere tutta l’estensione di Siracusa, che si prospetta proprio davanti agli occhi; se poi si aguzza lo sguardo (e l’obiettivo), sullo sfondo campeggia, innevato, l’Etna. Da spettacolo!

Unica cosa degna di nota, nei ruderi (a dire il vero sono edifici di questo millennio, che dovevano ospitare un nonsobenecosa museo del mare), ho persino incontrato due giovani di passaggio che si erano rifugiati per qualche giorno proprio in quelle strutture: lui veniva dalla Svizzera e lei dalle Puglie, un mix inconsueto di refrattari alla civiltà (“niente soldi, facciamo qualche lavoretto in cambio di ospitalità“), alla ricerca di uno stile di vita sicuramente più slow e controcorrente.

Sul web non è difficile trovare informazioni sulle saline di Siracusa, basta cercare con questi 2 termini ed escono fuori diverse pagine, che sia Wikipedia o un altro sito turistico locale. Ma una pagina meno facile da scovare, con la storia di questa località, permette di capire meglio la sua origine e quindi il suo triste stato attuale, in completo abbandono da oltre 40 anni, nonostante i progetti e le velleità di farne un centro espositivo, museale o cose del genere. Comprese le conferenze e i convegni che, periodicamente, cercano di riportare l’attenzione su questi luoghi. Curiosando poi tra le foto disponibili sul web, se ne trova qualcuna che permette di cogliere, dall’alto, l’estensione di questa zona. Ho aggiunto anche la visione satellitare da GMaps per un confronto. Si tratta di una bella zona di territorio, umida, pianeggiante, attualmente libera da costruzioni o altri manufatti; purtroppo un po’ abbandonata e ancora poco valorizzata. Insomma, vale la pena esplorarla un po’.

E allora, a metà mese, eccomi di nuovo alla ricerca di un sentiero più agibile. Giungo fino al ponte sul fiume Ciane (a dire il vero quel ponte supera ben 3 corsi d’acqua, l’Anapo, un altro canale e il Ciane, per una terra avara di acque non è male un terzetto del genere. Sapevo che proprio vicino al ponte c’era un punto di osservazione, con casetta in legno e pontile sull’acqua, un luogo pittoresco e piacevole che avevo già visitato altre volte. Ma appena entrato nella zona riservata ho notato con piacere un po’ di pulizia in più e il sentiero che avevo sempre visto impenetrabile, adesso era piacevolmente aperto e invitante.

In pratica dalla strada asfaltata parte un sentiero in terra battuta che giunge fino alla riva del mare, costeggiando da un lato il Ciane e inoltrandosi così dal lato nord nella zona delle saline. Si vedevano ancora fresche le tracce di un mezzo pesante, probabilmente un trattore, utilizzato per la pulizia e rendere percorribile il sentiero. E sarà che la gente è pigra, che la zona non è molto segnalata, che ancora in pochi sono attratti da questi angoli naturali, insomma, non c’era proprio pericolo di assembramento! Nessuno all’orizzonte, strada pulita, poche tracce di invasione umana.

Si giunge così facilmente fino al mare, qui il discorso cambia perché la riva non è proprio un luogo piacevole, ci si trova ancora di tutto e provvede il mare a depositarci ogni sorta di rifiuti; ma almeno si prova la nostalgia di come potrebbe essere un posto del genere; pozze di acqua salmastra, distese liquide , canneti, piante lacustri, uccelli che ogni tanto prendono il volo…

L’incontro più originale della giornata ha dell’inaspettato: ad un certo punto vedo giungere sul sentiero che avevo appena percorso un sub tutto bardato, ancora con la maschera e il boccaglio, le pinne in una mano e il bottino nell’altro, due o tre notevoli branzini. Per lui era la strada più breve, di terra e di acqua. L’uomo e il mare, mi veniva da pensare… e fino a quando il mare viene vissuto in questa dimensione individuale credo che la sostenibilità non ne risenta.

Lungo la strada del ritorno mi sono fermato praticamente ogni 4 o 5 passi, gli scorci erano davvero suggestivi e fare scorta di panorami, luci, vento che accarezza le erbe… non è mai abbastanza. A far galoppare la fantasia ci si poteva immaginare di essere finiti, ogni tanto, in qualche palude alpina, alla foce di mitici fiumi (e il Ciane in fin dei conti, lo è) o in qualche savana, qualche rimasuglio di duna costiera….

Certamente queste zone, tra acque di mare e di fiume, piante rigogliose e caratteristiche (il papiro del Ciane è davvero una caratteristica unica, compensata solo dalla presenza ingombrante degli eucalipti, molto abbondanti in questa zona e che a quanto pare andavano di moda fino a quando non si è capito che è meglio lasciarli crescere nel loro habitat giusto). So che si possono fare escursioni in canoa o kayak lungo le coste e nella foce dei fiumi. Ma per quello aspettiamo ancora un po’ la stagione più calda…

E per dare un’occhiata, ecco qua un po’ di foto sulla zona delle saline di Siracusa