Fine pena…quando?
Forse non riflettiamo abbastanza sul fatto che alcune conquiste morali e sociali hanno bisogno di persone e tempo per crescere e raggiungere visibilità. Ci pensavo quando spiegavo il buon Cesare Beccaria (il nonno di Manzoni, per intenderci) e il suo fondamentale libro “Dei delitti e delle pene”, che nell’epoca dei Lumi ha posto con forza il dibattito sulla pena di morte. Ancora oggi ci sono numerosi paesi e località dove questo principio non ha ancora fatto breccia e la legge continua ad arrogarsi il diritto di spegnere una vita con la presunzione di fare una cosa giusta.
Oggi il dibattito si è spostato sul tema dell’ergastolo, sul paradosso di una legge che vorrebbe offrire con la reclusione una occasione di emendamento e che lo preclude, di fatto, impedendo un recupero della persona, seppellendolo in pratica prima della sua morte in un carcere.
E’ un tema, quello del carcere, che conosco sinceramente troppo poco per azzardare ipotesi, ma la lettura di questo interessante libro di Fassone apporta al dibattito un contributo personale e argomenti sensati molto particolari.
Scritto con uno stile lineare e scorrevole, mai sciatto e con tratti narrativi davvero felici e con alcune felici invasioni di campo nell’ambito della poesia, il testo racconta una storia che sembrerebbe inventata, nella sua paradigmatica coerenza. L’autore è un giudice e nel corso di un maxiprocesso, svoltosi a Torino negli anni ’80, mette in ginocchio un feroce giro di mafia catanese. A uno degli imputati, killer spietato e giovanissimo, viene comminata una serie di ergastoli, proprio per evitare le derive di una giurisprudenza che a volte rischia di disfare con la mano destra quello che la sinistra ha tessuto con fatica.
Ed è proprio tra questo ergastolano e il giudice che inizia una incredibile corrispondenza epistolare, che durerà per oltre 27 anni, fino al momento del tragico epilogo.
In questo che sembra quasi configurarsi come un romanzo di ri-formazione, avvertiamo tutto il crescendo di una relazione asimmetrica tra il giovane che poco alla volta si affida, quasi, alle parole sagge del giudice, che tenta in qualche modo di contribuire ad un recupero della persona alla quale ha spento, proprio con l’ergastolo, ogni possibilità di redenzione. Leggiamo quindi il lento procedere delle cose, i continui spostamenti di carcere, le regole ferree e le enormi difficoltà per recuperare una dimensione umana, la possibilità di un piccolo lavoro, di piccoli spazi di umanità, il sogno minuscolo di un amore che potrebbe accompagnare la vita ma che poi naufraga contro le barriere di un tempo che non arriverà mai…
Poco alla volta cambia il modo di vedere le cose di questo ergastolano, ma cambia anche la percezione dello strumento penale da parte del giudice, che poi diventa magistrato e senatore. E’ una lenta ma profonda riflessione sul senso del carcere, sulla possibilità di offrire un cammino di recupero, sulla assurda tenacia di alcune leggi che impediscono, di fatto, quello che persino la Costituzione addita come funzione necessaria del carcere, che non è la sola difesa e tutela dei cittadini, ma anche la possibilità di “emendare” il colpevole.
E’ un contributo prezioso al dibattito sul “fine pena mai”, sul senso che possa avere oggi, sulla capacità di una società a diventare più “giusta” (perché nessuna società nasce perfetta e le “perfezioni” di ieri non è detto che valgano ancora per domani).
Purtroppo l’epilogo è triste, il carcerato finirà col togliersi la vita e questa ferita colpisce doppiamente il magistrato, come uomo ma anche come rappresentante di quella “giustizia” che immaginiamo sempre come qualcosa di astratto e imponderabile. Un testo che trovo molto per far crescere le persone e ragionare su un tema che pur non toccandoci quasi mai direttamente, coinvolge davvero tante vite umane (in Italia sono oltre 1500 i condannati all’ergastolo).